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Abstract

Qui nacque l’elisir per l’acqua e “zammù”
Un quadernetto con la copertina nera di dieci centimetri per quindici, conservato in cassaforte, custodisce dal 1813 la ricetta segreta con cui i fratelli Tutone preparano lo zammù, forse già inventato dagli arabi, capace di trasformare un bicchiere d’acqua in una bevanda dissetante e gustosa: si tratta di una versione nuova e “unica” (da qui l’appellativo “unico” sull’etichetta) creata utilizzando l’anetolo che si vendeva in farmacia, cioè l’olio essenziale che si ricava dai semi dell’anice stellato. La storia comincia in un chiosco in piazza Fieravecchia, poi chiamata piazza Rivoluzione, dove si vendevano bevande e tabacchi. Molti gli aristocratici diretti al Teatro Santa Cecilia che si fermavano in carrozza a dissetarsi. Adesso che la produzione è su scala industriale, è rimasta la sede di Palazzo Ajutamicristo, acquistata nel 1948 a pochi passi dal vecchio chiosco, a ricordare le origini.
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Quando l’innovazione dava lavoro a un’intera isola
Le cronache raccontano che, per riprendersi dal lutto in seguito alla morte dei due figli piccoli, donna Franca Florio soggiornò a lungo a Favignana. Un’isola che doveva apparire rude e selvaggia, ai tempi, ma con cui i Florio avevano un legame solido e leale. Una storia che nasce nel 1841, quando la famiglia, intravedendo i grossi guadagni della pesca del tonno, prende in affitto la tonnara dai Pallavicini di Genova. Da qui all’acquisto da parte di Ignazio Florio delle intere isole di Favignana e Formica e dei diritti di pesca il passo è piuttosto breve. Ignazio non perde tempo: chiama un architetto del calibro di Giuseppe Damiani Almeyda, amplia e ristruttura la tonnara. Va oltre, anzi, costruendo lo stabilimento per la conservazione del tonno, introducendo il metodo della conservazione del pesce sottolio dopo la bollitura e inscatolamento. Una rivoluzione che farà il giro del mondo (all’Esposizione universale del 1891-92 l’intraprendente famiglia porterà la novità assoluta delle scatolette di latta con apertura a chiave), che richiederà manodopera e impiegherà per lungo tempo buona parte di favignanesi.
Oggi, questa straordinaria testimonianza di archeologia industriale – 32 mila metri quadri, una delle più grandi tonnare del Mediterraneo – rivive in un suggestivo spazio destinato a museo, con sale multimediali e l’organizzazione di eventi culturali. Ma, ancora, ostinatamente, riecheggia il nome dei Florio e di tutti i lavoratori che hanno fatto del tonno e della sua lavorazione un’eccellenza per moltissimi decenni.
Nella piscina degli dèi, tra silenzi, ulivi e agrumi
Tra il tempio dei Dioscuri e quello di Vulcano, vi imbatterete in una macchia di verde intenso di circa cinque ettari, coltivati a ulivi e agrumi. Un luogo in cui la natura è regina incontrastata: è il giardino della Kolymbetra, che sorge su una dolce insenatura della Valle dei templi, in cui tempo e spazio sembrano davvero non appartenere alla Terra.
Un luogo conosciuto anche con il suggestivo nome di “piscina degli dèi”, e in un certo senso lo fu: il nome “Kolimbetra” era usato dai greci per indicare un tipo di piscina utilizzata in età romana per i giochi acquatici.
Quale sia la reazione del viaggiatore – che viene avvolto in uno sciame di silenzi, profumi e fruscii di foglie, anche in tempi più recenti dell’età classica – è presto detto: “Una piccola valle che, per la sua sorprendente fertilità, somiglia alla valle dell’Eden o a un angolo delle terra promessa”. Sono le parole dell’Abate di Saint Non, che visitò questo giardino incantato nel 1778.
Dal portale gotico ai matrimoni regali, qui rivive la città medievale
Avvicinatevi e sentirete il profumo di una storia lontanissima, che data 1197: in quell’anno, questa imponente chiesa venne consacrata, alla presenza di quell’Enrico VI figlio di Federico Barbarossa. La bellezza e l’eleganza del Duomo erano così perfette da ospitare il matrimonio tra Guglielmo II, principe normanno di origini siciliane, e la principessa Giovanna, sorella di Riccardo Cuor di Leone.
Oggi resta ben poco di quel posto tanto magico – incantava chiunque lo vedesse – quanto sfortunato: incendi, terremoti e speculazioni umane (a partire dal rogo del 1294) lo hanno fortemente danneggiato. Ma la sua bellezza resiste e vive, a partire dai portali gotici, che offrono un prezioso spaccato della vita quotidiana del tempo, fino all’altare maggiore, ornato di pietre dure, e alle cappelle e ai monumenti funerari intitolati a personaggi di spicco della Messina medievale.
Da non perdere, inoltre, il tesoro del Duomo, e soprattutto il suo pezzo più pregiato: la Manta d’Oro, realizzata in purissimo oro nel 1668 dal celebre orafo fiorentino Innocenzo Mangani.

Nel cuore di piazza Duomo il miracolo del Vaccarini
Risalente all’epoca normanna, la Cattedrale di Catania, dedicata alla santa protettrice della città, fu voluta dal Gran Conte Ruggero che, desiderando velocizzarne la costruzione, scelse come materiale per la sua realizzazione la pietra lavica, estratta dall’anfiteatro e dal teatro romano di età imperiale. Dopo il catastrofico terremoto del 1693, dal quale la Cattedrale uscì distrutta, fu l’architetto Giovan Battista Vaccarini a occuparsi della sua ricostruzione. Tra il 1733 e il 1761, le donò l’aspetto odierno, con il caratteristico contrasto tra i marmi bianchi delle decorazioni e quelli dalle varie sfumature di grigio, le colonne romane che arricchiscono la facciata e le statue raffiguranti la patrona che completano l’opera. Tra le opere conservate all’interno, meritano particolare attenzione il portale del transetto destro e quello più antico della cappella absidale destra, che conduce alla stanza in cui viene custodito il tesoro di Sant’Agata, detta camaredda. Le sacre reliquie della martire catanese sono custodite all’interno del sacello, visibili solo nei giorni delle festività, inoltre riposano lì la principessa Costanza d’Aragona e il compositore Vincenzo Bellini.
Quando la città era dote delle regine d’Aragona
Prende il nome del generale bizantino Giorgio Maniace, uomo che si era fatto da sé togliendo, nel 1038, Siracusa agli arabi; ma fu con Federico di Svevia, nel Duecento, che divenne uno tra i più imponenti castelli dell’epoca.
Con gli aragonesi diventò la sede della camera reginale, un istituto che faceva di Siracusa la dote della regina, a cominciare dalla moglie di Federico III, Eleonora di Napoli, la prima a ricevere questo dono di nozze.
I baroni siracusani continuavano a ribellarsi e, più di un secolo dopo, il re Alfonso il Magnanimo corse ai rimedi. Inviò a Siracusa il capitano Giovanni Ventimiglia, conte di Geraci, che organizzò un banchetto con venti degli oppositori più aggressivi. Prima che la festa fosse finita, li fece decapitare senza tanti complimenti.
E così, Siracusa andò ancora in dote alle regine fino ai primi anni del Cinquecento.
Il quartiere monumentale precristiano e le suggestioni di Caravaggio
Nel cuore della Siracusa moderna, s’innesta quella antica: il parco archeologico della Neapolis, riportato alla luce da pazienti scavi archeologici all’inizio del Novecento, che si estende per un’area di ben 35 ettari in cui convivono capolavori assoluti dell’arte classica e una natura lussureggiante. Un quartiere – che comprende il teatro greco di Siracusa, l’ara di Ierone II, monumento celebrativo dedicato a Zeus Eleutherios, l’anfiteatro romano e l’orecchio di Dionisio – nato nel 405 avanti Cristo così monumentale e ricco di testimonianze artistiche per volontà del tiranno Dioniso.
Porta il suo nome la più imponente opera monumentale del tempo, appunto: il celebre orecchio dal quale parte si snoda il percorso delle grandi latomie urbane.
Una grotta artificiale avvolta da una natura rigogliosa, la cui forma ricorda quella di un padiglione auricolare, con un’acustica così potente che i suoni vi vengono amplificati fino a sedici volte. Un luogo che colpì molto il pittore Caravaggio: pare sia stato lui, nel 1608, a chiamare questo luogo orecchio di Dionigi, dando vita alla leggenda secondo cui il tiranno avrebbe fatto costruire questa grotta come prigione, da cui ascoltare indisturbato le parole dei reclusi.

Quel magico spicchio di cielo al centro della Kalsa
Il fascino della chiesa a cielo aperto cattura chiunque. Lo Spasimo è il simbolo del centro storico ritrovato. I lavori di costruzione iniziarono nel 1509 a opera dei monaci olivetani: il complesso però non venne mai completato in quanto, nel 1536, l’aggravata minaccia dell’armata turca indusse il vicerè di Sicilia don Ferrante Gonzaga a costruire un baluardo a ridosso della chiesa e del convento. Nel 1520 si arricchì di un capolavoro: lo “Spasimo di Sicilia” di Raffaello, ora esposto al Prado di Madrid, protagonista di un celebre giallo storico. Nel 1582 la chiesa venne adibita a spettacoli, ma nel secolo successivo divenne lazzeretto durante l’epidemia di peste. A metà del Settecento crollò la volta della navata centrale, che non verrà mai più ricostruita.
L’antico tesoro delle monache benedettine
È il più celebre dei monumenti medievali della città, splendido, da non perdere. Per gli agrigentini è “Bataranni”, in dialetto, che significa la “Badia Grande”. Fondato nel 1299 dalla marchesa Rosalia Prefoglio, moglie di Federico I di Chiaramonte e madre di Manfredi, che negli ultimi anni della sua vita decise di donare la struttura alle monache benedettine dell’ordine cistercense. L’ingresso immette in un bellissimo chiostro. Al pianterreno: la cappella eretta da Costanza II di Chiaramonte intorno al 1350; l’Aula Capitolare, con portale, due grandi finestre bifore in tipico stile chiaramontano a zig zag e il soffitto con archi ogivali; il grande refettorio realizzato nel 1621. Al primo piano, da visitare il dormitorio con soffitto ligneo e archi a sesto acuto della prima metà del Seicento e la Sala della Torre. L’ultimo piano ospita la sezione etno-antropologica del Museo civico.
Fontana, Casorati, Guttuso. A spasso tra i grandi del Novecento
La Galleria d’arte, intitolata al critico d’arte messinese Lucio Barbera, custodisce una collezione di grande pregio che comprende opere di artisti del ventesimo secolo di fama nazionale e internazionale del calibro di Lucio Fontana, Felice Casorati e Alighiero Boetti. Rappresenta al suo interno tante correnti artistiche da quella neorealista del periodo del dopoguerra (Felice Canonico, Giuseppe Santomaso), al movimento della Pop Art italiana (Franco Angeli, Mimmo Rotella) insieme alle sorprendenti installazioni di Agostino Bonalumi o alle sculture di Giò Pomodoro e di Giuseppe Mazzullo. Una sezione a parte è dedicata agli artisti che hanno fatto grande il Novecento messinese, e più in generale quello siciliano: tra questi Renato Guttuso, Giuseppe Migneco, Giulio D’Anna. All’interno della Galleria d’arte è possibile visitare anche la mostra permanente “La vita non è un Sogno” dedicata al poeta Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la Letteratura (1959).

Una terrazza panoramica sul barocco della città
Affacciata su via Vittorio Emanuele, la chiesa della Badia di Sant’Agata e l’ex monastero annesso furono innalzati sulle rovine dell’antica chiesa e del convento dedicati alla patrona catanese. Distrutta dal sisma del 1693, la Badia fu completata nel 1735 dall’architetto Vaccarini, in stile barocco siciliano, con un prospetto caratterizzato da un movimento ondulato che regala morbidezza a tutto l’edificio, grazie anche alle concavità e convessità che danno vita ad ammalianti contrasti di luci e ombre. Il ricco portale di stile tardo rinascimentale e le insegne della santa conducono all’interno della chiesa, che accoglie in maniera essenziale, con una pianta a croce greca dominata dalla maestosa cupola, che dona una vista a 360° sulla città. Dentro, imperdibile, il Crocifisso realizzato da Ignazio Carnazza, nel 1696.
Il presepe più antico del mondo e la prima iscrizione per Santa Lucia
La basilica a cielo aperto di San Giovanni Evangelista nei suoi sotterranei custodisce un tesoro, che a sua volta ne racchiude tanti. Sono moltissime le chicche da scoprire girando per le catacombe di San Giovanni: un labirinto avvolto da un silenzio secolare, con una galleria principale, decumanus maximus, da cui partono quelle minori, cardines.
Scendere in questi luoghi significa anche vedere uno spaccato della società del tempo, con le diverse tipologie di sepoltura determinate dallo spazio a disposizione o dalla possibilità economica. Ecco il loculo, che veniva poi chiuso e corredato da iscrizioni, il ricco arcosolio, scavato nel vivo della roccia, sormontato da una nicchia e munito di una tavola, e la più umile forma, semplicemente scavata nel pavimento.
Le catacombe di San Giovanni conservano anche il presepe più antico del mondo, scoperto nell’Ottocento dall’archeologo Saverio Cavallari – allora direttore delle Antichità di Sicilia – con il sarcofago di Adelfia, moglie del conte Valerio, alto funzionario della corte imperiale. La sepoltura nel quale la donna riposa ha, infatti, scolpito al suo esterno la prima scena mai riprodotta della natività di Cristo.
Spettacoli, assemblee, processi. Un “centro polifunzionale” dell’antichità
Proviamo a immaginare cosa dovesse essere il teatro greco di Siracusa ai suoi tempi. Monumentale, certo, perché monumentale e celebrativo era tutto il quartiere in cui si trovava, Neapolis. Ma anche in perfetta armonia con l’ambiente: sembra posarsi leggero sul colle Temenite sul quale è costruito, fino a essere un insieme con la natura e con il paesaggio circostante.
Non era però bellezza fine a se stessa: e se oggi vi si svolgono le rappresentazioni classiche, secoli fa era stato pensato come l’edificio per spettacoli più importante del mondo greco-occidentale, altissimo esempio di architettura civile. Il teatro era anche luogo di culto, di assemblee popolari, perfino di processi. Un centro polifunzionale, insomma, la cui fama raggiungeva persone e luoghi lontane.
Quanto a fama, il teatro greco l’ha conservata intatta, nonostante rimaneggiamenti, spoliazioni e danneggiamenti che hanno segnato la sua lunga epoca. Come i viaggiatori del Grand tour, che consideravano questa una tappa obbligata nella loro formazione, anche noi, uomini iperconnessi del terzo millennio, che ci piaccia o no, subiamo lo stesso, immutabile fascino.
Dietro il sipario del tempio della lirica
Che effetto fa salire sul palco del Teatro Massimo, come i cantanti d’opera, e vedere il colpo d’occhio della magnifica sala? Che effetto fa svelare i segreti del palcoscenico tra le scenografie, gli attrezzi e gli abiti di scena? Per provarlo, basterà fare questa visita che “ribalta” il punto di vista tradizionale degli spettatori. E godere in modo inedito del fascino del Teatro Massimo, terzo per dimensioni dopo l’Opéra National di Parigi e la Staatsoper di Vienna. Progettato dal celebre architetto Giovan Battista Filippo Basile e realizzato fra il 1875 e il 1897, il Teatro occupa 7.700 metri quadrati e sorge sull’area di un antico complesso religioso di suore, che fu abbattuto per far posto all’ambizioso progetto “Massimo”. Secondo una diceria popolare, la notte si aggirerebbe ancora il fantasma di una monaca del monastero demolito.
Il possente Telamone, l’Efebo, eternamente giovane e le amatissime Demetra e Persefone
È detto anche di San Nicola, proprio perché si trova dietro l’omonima chiesa.
Trovarsi in questo museo è come fare una full immersion della vita dalla preistoria all’epoca greca. Eccole, queste gemme che il tempo non ha scalfito: il Telamone, proveniente dal tempio di Zeus, il gigante Atlante per cui nessun peso sembra troppo gravoso: a lui, infatti, era toccato il compito di sostenere una trabeazione della dimora del re degli dei. E poi il guerriero, con la sua eleganza militare, e l’Efebo di Agrigento, splendida figura di giovanetto, cristallizzato nella sua eterna, verde età.
E poi, tutt’altro che di secondo piano, la produzione artigianale delle terrecotte devozionali, che gli antichi abitanti di Akragas realizzavano nelle botteghe fuori dalle mura cittadine per offrirle alle amate divinità della terra, le dee madre e figlia Demetra e Persefone. Una storia che continua, proprio attraverso queste suggestive testimonianze.
Cinque secoli di storia del modo di fare la guerra
Com’è cambiato il modo di difendersi e di attaccare? Quali differenze tra l’arte della guerra in Europa e quella americana o islamica? E come si andava a caccia un tempo? Le risposte si trovano in questa interessante esposizione con centinaia di armi che fanno parte di una collezione privata, considerata una delle più ricche al mondo. Un viaggio attraverso cinque secoli di storia documentata. La rassegna è allestita nell’ambito del Museo delle armi antiche, in alcuni locali della sede della Città metropolitana, ex Provincia. A raccogliere questi cimeli, da circa cinquant’anni, è un docente animato da grande passione, Gaetano Ori Saitta.
Vedremo armi da fuoco pesanti e leggere, “bianche” da getto, da asta, a lama lunga e corta, ma anche capi d’abbigliamento militari e oggetti utili alla difesa passiva. Cannoni, fucili, pistole, archibugi, pugnali, spade, alabarde, usati come strumenti bellici o per parate militari. Antica tecnologia, ma pure, in alcuni casi, bei pezzi di accurato artigianato artistico da ammirare.

L’opera dei gesuiti raccontata in una chiesa
Uno spettacolo prima ancora di entrare, visto che si trova in via dei Crociferi, la strada più scenografica del barocco catanese. Edificato nel Settecento, questo edificio racconta una lunga storia che intreccia la permanenza dei gesuiti in città a una nobile famiglia, i Borgia, da sempre legata a doppio filo al mondo della chiesa e della cristianità. È intitolata infatti a Francesco Borgia, nato nella cristianissima Spagna nel 1510, che consacrò tutta la vita a riabilitare il discusso nome del proprio casato attraverso una vita austera e morigerata. Alla morte della moglie, Eleonora, si unì alla compagnia di Gesù e da lì iniziò, instancabile, la sua opera di evangelizzazione in giro per il mondo, autorevole consigliere di imperatori, re e principi, per tornare finalmente a morire nella sua cella romana, nel 1572. E temi legati ai gesuiti sono disseminati per tutta la chiesa, a cominciare dalla cupola, affrescata da due mostri sacri del tempo: Olivio Sozzi e Vito D’Anna. Nella decorazione domina la figura di Cristo, mentre nei pennacchi della cupola, le quattro figure rappresentano i continenti evangelizzati dalla Compagnia di Gesù: Europa, Asia, Africa e America.
L’oratorio dei Quaranta martiri e la curiosità di Paolo Orsi
Le catacombe di Santa Lucia rappresentano la testimonianza di quanto fosse attiva la comunità cristiana in città già a partire dal III secolo, ma anche un esempio di trasformazione.
È uno dei pochi luoghi in città, infatti, a essere stato trasformato in luogo di culto dopo essere stato utilizzato come cimitero. Le ragioni di questo cambiamento sono diverse e vanno dalla costruzione della basilica soprastante e della chiesa del sepolcro di Santa Lucia ad alcune modifiche e demolizioni. Cambiato l’aspetto, insomma, è cambiata anche la destinazione d’uso, ma sempre per scopi religiosi.
Tra il 1916 e il 1919, l’archeologo Paolo Orsi fece un’eccezionale scoperta: notò una strana area intonacata, e scrostandola riportò alla luce il prezioso oratorio dei Quaranta Martiri di Sebastia con il suo suggestivo ciclo pittorico.
L’affresco, di grande bellezza, riproduce una grande croce gemmata che divide la superficie in quattro parti, in cui sono raffigurati, a gruppi di dieci, i Quaranta Martiri di Sebastia. Alle estremità inferiori e laterali dei bracci della croce si trovano la Vergine orante e due angeli, all’incrocio dei bracci il busto del Cristo Pantocratore. Uno spettacolo di cui ancora oggi possiamo godere proprio grazie alla sagacia e alla curiosità intellettuale di Paolo Orsi.
Da chiesa medievale a sede di preziose raccolte
Tra stemmi araldici di nobili famiglie trapanesi e busti di personaggi illustri, una scalinata conduce alla sala lettura ricavata nella duecentesca chiesa di San Giacomo Maggiore. Biblioteca civica dal 1830, l’anno successivo fu intitolata a Giovanni Battista Fardella, ministro della guerra del Regno delle Due Sicilie e collezionista d’arte che ne volle la fondazione, donando il proprio patrimonio librario. Il busto in marmo del benefattore, insieme ad altri, si trova fra due colonne di origine araba, sulle quali sono incisi versetti del Corano. Circa 170 mila sono i volumi custoditi (molti i manoscritti, gli incunaboli, le cinquecentine), di vario contenuto, appartenuti per lo più agli ordini religiosi soppressi. Tra le raccolte assai preziose, quella delle stampe incise dal veneto Giovanni Battista Piranesi.
Il capolavoro di Damiani Almeyda dominato dalla Quadriga di Rutelli
La grande passione per gli scavi di Ercolano e Pompei è alla base delle scelte stilistiche dell’architetto e ingegnere Giuseppe Damiani Almeyda, nel concepire il progetto del Politeama. Alla guida dell’ufficio tecnico del Comune di Palermo, Almeyda riuscì a realizzare l’opera e a inaugurarla nel 1874. In realtà, una prima idea era stata già avanzata nel 1860, quando il pretore Giulio Benso, duca della Verdura, aveva deciso di dotare la città di un teatro diurno e circo olimpico, vista la popolarità di spettacoli equestri e acrobatici. Ma Damiani Almeyda diede un’interpretazione personale e originale al progetto, caratterizzato da uno spiccato gusto per la policromia, colonnati e statue allegoriche. In cima al grande ingresso svetta la Quadriga bronzea di Mario Rutelli.
Lo scrigno dei tesori della Chiesa agrigentina
Epigrafi, reliquiari, dipinti, documenti e testimonianze varie. Unaricca collezione ricostruisce la storia della Diocesi agrigentina dal XII al XIX secolo. Le sale del Museo accolgono preziosi manufatti realizzati non solo da maestranze locali, ma anche nazionali e internazionali. Tra i “pezzi” medievali più rappresentativi, spiccano l’epigrafe araba del 997,rinvenuta a Lampedusa, e l’Altarolo, un altare portatile del secolo XII-XIII, di maestranze itineranti, proveniente dalla Cattedrale. Particolarmente interessante quest’ultimo manufatto, chiamato anche “l’Altarolo dei Crociati”. A ben guardarlo, la doppia croce lamellare collocata sul retro presenta i caratteri delle “stauroteche” dei pellegrini (i reliquiari destinati a contenere frammenti del legno della Croce di Cristo) incoraggiate dagli ordini monastico-cavallereschi.