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124 Via Dante Alighieri

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Abstract

Tisane, “droghe”, spaccapietra Una storia lunga tre secoli
Sulla targa di via Dante c’è scritto 1769. A quella data rimonta l’apertura della prima erboristeria dei D’Angelo. Con molta probabilità dev’essere proprio questo l’esercizio commerciale più antico di Palermo. Ma Giovanni D’Angelo precisa che la fondatrice fu la trisavola Dorotea Oliveri e che, solo dopo aver sposato un D’Angelo, il negozio prese il nome attuale. Vicino al Capo, miscelava con il bilancino le giuste quantità di “droghe”, dalla “spacca-pietra”, alla malva per curare le ostruzioni renali. Alle 7 l’erboristeria D’Angelo è già aperta. Nel laboratorio c’è un piccolo gioiello, il bancone miscelatore progettato da papà Giuseppe trent’anni fa. Da D’Angelo Serafino, nell’800 il testimone passa a Giovanni, nonno dell’attuale titolare. Dello “spaccapietra” se ne vendono trenta boccali ogni giorno: è fatto di gramigna, fiore di ficodindia per curare la “renella”.
Mappa

Da carcere a museo. Ecco l’antica Vicaria
A dare il benvenuto ai visitatori sono due grandi telamoni sulla facciata esterna. Questo è uno dei più severi palazzi di Trapani, detto della Vicaria, perché qui aveva sede l’antico Tribunale. Sorto tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII, venne poi ribattezzato Palazzo del carcere poiché l’edificio, fino al 1965, ospitò pure i detenuti. Nel 2015 è stato trasformato in Museo d’arte moderna e contemporanea, gestito dall’associazione La Salerniana. La collezione, raccolta grazie alle generose donazioni di alcuni artisti, comprende varie opere dagli anni Cinquanta a oggi. Tra i nomi, spiccano quelli di Carla Accardi, Pietro Consagra, Pino Pinelli. Nelle numerose sale, con un pregevole allestimento, coesistono diversi linguaggi artistici, tendenze e stili.
Un pellegrinaggio laico, tra antiche carte, pini solitari e argille azzurre a picco sul mare africano
“Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano”: così, Luigi Pirandello descriveva la propria venuta sulla terra.
E quel pino solitario esiste davvero, lungo il sentiero a destra della casa. Solo che, danneggiato da una tromba d’aria che nel 1997 lo travolse tanto da tranciargli la chioma, oggi non ne resta che una sezione. Ma lì sono racchiuse le ceneri del poeta, drammaturgo e scrittore, tornato idealmente nel luogo in cui cadde come una lucciola, per nascere.
Basterebbero queste emozioni, e la vista del panorama che si tuffa nelle argille azzurre sul mare africano, per giustificare la visita. Ma al primo piano dell’abitazione c’è il museo dedicato a Pirandello, con mostre temporanee dedicate al Maestro e, una vasta collezione di cimeli, fotografie, lettere, recensioni, onorificenze, libri in prima edizione con dediche autografe, quadri d’autore dedicati e locandine delle opere pirandelliane più famose rappresentate in tutto il mondo.
Un museo sui generis, da cui certamente avrete qualche difficoltà a separarvi.
Tra storie della città e un leone ruggente, il più grande marchingegno del mondo
Non si può pensare a Messina senza che la mente vada a uno dei suoi simboli più significativi : l’orologio astronomico.
Incastonato nel campanile del Duomo, faticosamente rimesso in piedi dopo il terremoto del 1908, ha visto la luce grazie agli operai-artisti della prestigiosa ditta Ungerer, di Strasburgo. I meccanismi, infatti, riprendono un po’ quelli dell’orologio astronomico della città nordeuropea; ma uno “zampino” lo mise anche Papa Pio XI, che regalò all’allora arcivescovo della città, Angelo Paino, un modellino funzionante del famoso orologio. E questi ne fu così entusiasta che ne commissionò uno simile, dando vita così al più grande e più complesso orologio astronomico del mondo.
Qui, il tempo è scandito attraverso un vero e proprio racconto con personaggi semoventi: al primo piano è raffigurata l’esperienza terrena con statue simbolo delle fasi della vita – infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia – tra cui, beffarda, si cela la morte.
Più sotto, invece, ecco i giorni della settimana, impersonati da altrettante divinità greche alla guida di un carro trainato da differenti animali.
Il secondo piano è dedicato alla vita di Cristo (nascita, Pasqua e Pentecoste) mentre il terzo, dominato da un poderoso gallo, racconta la rinascita di Messina con le statue di Dina e Clarenza, valorose cittadine dei Vespri siciliani, simbolo della lotta contro gli Angioini. Infine, il leone: stringe la bandiera di Messina e la fa sventolare tre volte al giorno. E a mezzogiorno, puntuale, ruggisce, per ricordare a tutti la forza d’animo della sua gente.

Quando la Madonna, in soccorso di Messina, deviò con le mani le frecce dei francesi
Era il 1282 e i messinesi erano insorti contro lo strapotere e l’insolenza dei francesi. Erano i Vespri siciliani, insomma.
E la Madonna delle vittorie apparve nel luogo in cui infuriava la lotta e in cui oggi sorge il Santuario di Montalto: una dama bianca, che con le mani deviava le frecce nemiche e con le vesti copriva le mura di Messina, rendendole invisibili ai soldati francesi. La leggenda racconta ancora che, poco dopo il prodigioso evento, Maria apparve in sogno a un frate, Nicola, chiedendogli di fare sorgere proprio lì un luogo di culto a lei consacrato. Il giorno seguente, a mezzogiorno, il fraticello convocò le più alte cariche cittadine, e una colomba, con il suo volo, delimitò il terreno, che venne poi acquistato dal Senato messinese. Una leggenda così impressa nella memoria collettiva da essere ricordato nel campanile del Duomo con un quadro semovente.
Nel 1295 la chiesa fu aperta ai fedeli e si diffuse il culto della Madonna di Montalto, ma nel 1908 il terremoto distrusse l’intero complesso, poi completamente ricostruito.
Dal santuario, visibile da ogni parte della città, si gode di una vista mozzafiato, ma da ammirare è anche lo splendido crocifisso cinquecentesco miracolosamente (è il caso di scriverlo) rinvenuto dopo i crolli del terremoto.

Nella casa del compositore che morì a soli 34 anni
Un musicista dal viso d’angelo, simbolo della genialità di Catania, amato non solo in Sicilia, ma in tutta Italia e nel mondo. Fu forse la sua morte precoce (aveva meno di 34 anni) e quel talento unito alla gentilezza dell’aspetto che fecero sì che, già nel 1919, il Real Circolo Bellini avviasse una sottoscrizione per fare della casa del musicista un monumento nazionale. Cosa che avvenne, a dispetto di difficoltà e impedimenti. Il 5 maggio 1930 fu inaugurato infatti in pompa magna il museo belliniano: era presente il re, Vittorio Emanuele III. Uno spazio piccolo, cinque stanze in tutto, occupato per intero da cimeli che raccontano la storia del musicista e della sua famiglia tra dipinti, libri, spartiti originali, strumenti musicali, scritti autografi. E perfino, secondo l’usanza dei tempi, la maschera mortuaria del compositore. Di particolare interesse la raccolta di autografi belliniani, tra cui numerosi abbozzi. Percorrere queste stanze significa insomma rivivere la vita dell’autore di Norma attraverso il doppio binario della sfera pubblica e di quella privata, con le stampe su Catania antica, le delibere del governo cittadino, ma anche gli oggetti di uso quotidiano, i ritratti. E perfino due tappeti che gli dovevano essere particolarmente cari, perché ricamati da Giuditta Turina, la sua amante.
Un affascinante gioco di scatole cinesi nel cuore della città
Immaginate di trovarvi a camminare immersi nel bianco della luce che ha solo Siracusa, e di essere esattamente nel cuore di questa straordinaria città, a Ortigia.
E, ancora, immaginate di imbattervi, così avvolti dalla luce, in uno scrigno gigantesco, pronto ad aprirsi per svelarvi innumerevoli tesori. Non abbiate dubbi: siete arrivati proprio al Duomo, dalla splendida facciata barocca che sorprende alla sola vista. Al suo interno, però, come in un affascinante gioco di scatole cinesi, è custodito il tempio di Atena, tra i monumenti in stile dorico meglio conservati dell’isola, voluto dal tiranno Gelone per ringraziare la dea della vittoria sui Cartaginesi.
E troverete traccia della splendida chiesa bizantina che inglobò il tempio con tale armonia da fare innamorare il vescovo Zosimo, nel VII secolo, di un amore così profondo da indurlo a farvi la sede della Cattedrale, che sostituì San Giovanni alle catacombe. In questo gioco di rimandi alle diverse culture non poteva mancare la dominazione araba: probabilmente, nel XII secolo, questo edificio dalle innumerevoli vite fu anche una moschea.
Nella casa dei prodigi e delle illusioni ottiche
La stanza di Ames, la stanza delle anomalie di gravità, la sedia di Beuchet. Non sono titoli di favole, anche se in un certo senso ci hanno a che fare: sono le illusioni ospitate dal Moi (Museum of illusions). Una realtà giovanissima – il museo è nato a Trapani nel 2017 – frutto dell’attenta ricerca sui limiti della percezione umana e su tutti quei “trucchi” che, ci piaccia o no, riescono ancora ingannare la mente, ad affascinarla.
Andando a spasso per il Moi, quindi, vi imbatterete in moltissime illusioni geometriche, prospettiche, di movimento, immagini ambigue ed illusioni di colore.
Ogni “illusione” è ovviamente spiegata e risolta con l’aiuto della scienza, ma anche, per i più piccoli, attraverso laboratori didattici in cui i partecipanti scopriranno come riconoscere le illusioni ottiche e quali sono gli elementi che regolano la percezione visiva. Con l’occasione di creare con le proprie mani un’illusione ottica, e magari di portarsi pure a casa il proprio piccolo prodigio.
Il gigante fragile e la lettera del diavolo
Tanto splendida quanto fragile, chiusa al culto nel 1966 dopo una frana rovinosa, poi messa in sicurezza e riaperta nel 2014, ma ancor oggi minacciata dallo smottamento della collinetta. Ecco la Cattedrale di San Gerlando, rara testimonianza di architettura arabo-normanna, fondata attorno al 1093. Sono rinascimentali la facciata e la torre campanaria eretta nel 1470, dalla quale si gode una meravigliosa vista. L’interno, che rispecchia vari stili, è riccamente decorato e pieno di opere d’arte. Nell’archivio si conserva la copia della “lettera del diavolo”, un misterioso documento, che, secondo una suggestiva leggenda, ripresa pure da Tomasi di Lampedusa e Andrea Camilleri, sarebbe stato dettato da Belzebù in persona a una suora del monastero di Palma di Montechiaro.
Una ricca sacrestia monumentale, in legno finemente scolpito, della fine del Cinquecento custodisce pregevoli paramenti sacri.
La villa dalle forme di un castello costruita dopo il terremoto
A Castanea, frazione collinare a pochi chilometri dal centro cittadino, si nasconde un tipico esempio di architettura eclettica, che risale alla prima fase di ricostruzione di Messina dopo il terremoto del 1908. Il repertorio decorativo della Villa richiama uno stile medievaleggiante, con torrette, bifore e fregi grotteschi. La costruzione, articolata in vari corpi di fabbrica, è in armonia con il paesaggio dei monti Peloritani. Castanea era considerato un luogo ideale di villeggiatura, già nel XIX secolo, non solo per i messinesi, ma anche per alcuni aristocratici e regnanti europei, come attestano documenti e testimonianze nelle numerose ville rimaste sul territorio. Oltre all’architettura originale e alla rigogliosa vegetazione, la visita è gradevole e interessante grazie pure alla presenza di vari frammenti lapidei provenienti dalle macerie del catastrofico sisma.

Da castello medievale a prigione borbonica
Appartenevano al corpo del Castello di Matagrifone o Rocca Guelfonia, la cui fondazione, come struttura difensiva strategica, su una collinetta dominante la città, si attribuisce a Riccardo Cuor di Leone, il re inglese in viaggio nel 1190 verso il Santo Sepolcro. Oppure, una costruzione fortificata esisteva già e il sovrano la ampliò. Il nome Matagrifone deriverebbe da “Mata griffoni”, cioè ammazza i Greci-Bizantini, e Rocca Guelfonia da “Rocca del re guelfo”, ovvero Riccardo (guelfo perché sosteneva la casa di Sassonia, mentre i ghibellini parteggiavano per la casa di Svevia). La fortezza fu potenziata nei secoli XV-XVI, per volere dei sovrani Ferdinando “il cattolico” e Carlo V. Durante la dominazione borbonica, venne utilizzata come prigione dove vennero recluse anche donne. Oggi rimangono la torre accanto al nuovo Sacrario, tracce delle mura fortificate e un imponente portale cinquecentesco con mascherone, ingresso delle Carceri ottocentesche nell’omonima via. Durante la guerra, gli ambienti ipogeici furono destinati a rifugio antiaereo.

Dalle collezioni amate da Goethe alla fashion house siciliana
Magnifica testimonianza di barocco siciliano, all’interno di un’area di uno dei più antichi palazzi di Catania, il Museo Biscari per molti anni ha vantato le collezioni archeologiche e naturali del Principe Ignazio Paternò Castello, celebrate da Goethe nel suo Viaggio in Italia e trasferite successivamente alla Galleria civica del Castello Ursino. Il museo ospita oggi l’MF, “Museum&Fashion”, dove moda e cultura si fondono per dare vita a una combinazione creativa. La Galleria Naturalia è sede dell’atelier della stilista catanese Marella Ferrera, mentre la Antiquaria fa da sfondo a una vera e propria novella interattiva, che unisce la storia della casa di moda alle tradizioni siciliane, oltre a una serie di mostre temporanee che vogliono fungere da ponte con il passato, quando nel Settecento il museo era motivo d’orgoglio per l’Isola.

Quell’Annunciazione che cambiò per sempre la storia
Il pezzo forte della galleria è sicuramente l’Annunciazione, il prezioso olio in cui Antonello da Messina immortalò il momento delicato e intimo del dialogo tra Maria e l’arcangelo Gabriele. Un dipinto – di cui si persero per lungo tempo le tracce e che venne ritrovato nel 1897 – in cui Antonello realizza la convivenza del Rinascimento e della pittura fiamminga. Del primo ritroviamo le geometrie e le dimensioni monumentali tipiche della scuola italiana, dei fiamminghi invece la cura per il dettaglio, come la ricca veste di damasco decorato dell’angelo, che indossa anche un diadema di perle e un rubino, segno di prestigio.
Si ha quasi l’impressione che, avvicinandosi al dipinto, si sentano le parole, inequivocabili anche se bisbigliate, dei due soggetti.
Palazzo Bellomo ospita però anche moltissime altre opere di enorme pregio, assai rappresentative della cultura della Sicilia orientale. E una chicca, sempre in tema di arte sacra: una tra le collezioni più rappresentative in Europa dei cosiddetti “madonnieri”, artisti di icone cretesi, veneziani e slavi che operarono dal XVI al XVIII secolo.
Un lavoro d’altri tempi nell’antica fattoria del Seicento
Ignorare la vita che ruotava (e che, con presupposti diversi, continua a ruotare) attorno al mondo del sale, significherebbe perdersi una parte importantissima del territorio. Molto prima di entrare in questo baglio – un’antica fattoria-fortezza del Seicento adibita alla molitura del sale, con il grande mulino a vento annesso – vi sembrerà di essere stati catapultati in un luogo altro, in cui i ritmi della terra si confondono con le mani dell’uomo, che per secoli ha convissuto questo ambiente umido e particolarissimo, costellato da colline di sale che cambiano colore a seconda della luce del sole. Come un’insolita neve permanente, atterrata da chissà quale pianeta. Il museo, in contrada Nubia, si trova – non potrebbe essere altrimenti- nell’itinerario della via del Sale. All’interno, tra le vecchie foto in bianco e nero dei salinari, stanno gli antichi strumenti di un lavoro che ha saputo sopravvivere, adeguandosi ai tempi. Ecco i vecchi ruzzoli, per compattare il fondo delle saline, i cattedri, ceste per trasportare il sale, le pale di legno dei mulini, ntinni.
La tecnologia avanza, ma, dentro queste mura in pietra inframmezzate dalle caratteristiche porte dipinte, calpestando l’antico pavimento in cotto, qui si respira un’aria d’altri tempi. Che ancora profuma e pizzica, come il sale.
La Concattedrale dove trionfa il barocco
È un viaggio nella Sicilia barocca, che odora di incenso e risplende di decori e affreschi. Da non perdere la visita a questa chiesa, compresa nell’ampio complesso domenicano, nella centrale piazza Pirandello. Qui, nel 1642, si trasferirono i monaci da un primo insediamento che si trovava, per volere dei Chiaramonte, nel quartiere arabo della città. La facciata si sviluppa su due ordini, con forme slanciate e maestose. Utilizzata come concattedrale, durante i periodi di chiusura della cattedrale di San Gerlando, la chiesa è uno scrigno di tesori. L’interno, a navata unica, contiene otto cappelle, quattro per lato, ricche di tele del XVII e XVIII secolo. Custodita pure una preziosa Crocifissione cinquecentesca, attribuita a Pompeo Buttafuoco, uno dei migliori interpreti dell’arte fiamminga locale. La Cappella del Crocifisso accoglie un dolente Cristo rinascimentale, al quale fa da sfondo un settecentesco reliquiario. Di particolare pregio le due cantorie e l’organo.
Un colpo d’occhio sullo Stretto e la città
La Madonnina del porto, simbolo di Messina, abbraccia e benedice con la celebre frase “Vos et ipsam benedicimus” (Benediciamo voi e la stessa città), tratta dal testo sacro che, secondo la tradizione, la Madonna in persona scrisse nel 42 dopo Cristo. La stele, progettata dall’ingegnere Francesco Barbaro, è opera dello scultore messinese Tore Edmondo Calabrò, che la realizzò nel 1934, su commissione dell’arcivescovo Angelo Paino. Alta 35 metri, è a pianta ottagonale, in cemento, rivestita di pietra di Trapani. In cima, la statua bronzea della Madonna della Lettera, protettrice della città, si ispira al simulacro di Lio Gangeri, portato in processione il 3 giugno. La stele è collocata sul torrione del Forte San Salvatore, all’estremità della mitica “falce” del porto. La fortezza fu voluta dall’imperatore Carlo V, al posto del monastero basiliano del Santissimo Salvatore dei Greci, importante centro religioso e culturale, demolito e ricostruito nella zona nord. Nel corpo del Forte detto Campana, sono allestite mostre permanenti sulla storia dei fari, sull’antica cartografia dello Stretto e sulla Marina militare.
La dimora neoclassica lungo il Dromo
Nella valle di Larderia, come in quella attigua di Zafferia, tra il Settecento e l’Ottocento, sorsero numerose ville di campagna abitate dall’aristocrazia imprenditoriale cittadina. Lungo l’asse viario del Dromo, che proseguiva a sud fino alla valle dell’Alcantara, fu realizzata Villa Lella Pulejo, elegante in stile neoclassico, come rivela il solenne ingresso porticato. Al suo interno si conservano affreschi ottocenteschi e varie opere d’arte databili tra il XVII e il XIX secolo. Di recente, gli antichi magazzini seminterrati sono diventati sede di un centro benessere collegato alla destinazione alberghiera degli ambienti soprastanti. Il giardino, con un ampio terrazzo sullo Stretto e alberi secolari, offre una straordinaria vista. Nell’antica cavallerizza si può ancora vedere il rifugio anti-bombe scavato nella roccia, nel periodo della seconda guerra mondiale.

Da Paolo Orsi a Guido Libertini, due custodi della bellezza
Una collezione unica nel suo genere, che racchiude preziosi reperti dal periodo protostorico e preistorico fino all’età tardo antica e medioevale. Ma soprattutto l’opera di due studiosi legati da una caratteristica comune: l’amore per l’arte e per la condivisione e diffusione delle opere.
L’origine della collezione partono infatti proprio da Paolo Orsi, infaticabile intellettuale e direttoredel museo archeologico di Siracusa, che donò dieci reperti provenienti dagli scavi di Megara Iblea al gabinetto di archeologia dell’Università di Catania. La collezione fu implementata dall’accademico e archeologo Guido Libertini che, a partire dagli anni Venti, arricchì la collezione, attraverso donazioni, con calchi in gesso di statuaria antica e recuperando una collezione numismatica donata nel 1783 da monsignor Salvatore Ventimiglia all’ateneo catanese.
Quello di Libertini fu un lavoro infaticabile, che lo portò ad acquisire tutti quei reperti che avrebbero formato l’attuale collezione del museo. Un’istituzione quindi in continua evoluzione e tutt’altro che statica, visto che l’archeologo concepì l’idea di un museo universitario dedicato alla ricerca ma soprattutto alla didattica.
Una chicca su tutte, dovuta all’interesse di Libertini per gli antichi manufatti di Centuripe: si tratta di 78 falsi, prodotti dai falsari di Centuripe con tale maestria da ingannare anche gli esperti.

Tra cave, pozzi e ricordi del passato
È un altro, importantissimo frammento della Siracusa sotterranea e di vite ne ha moltissime. Basta pensare a tutti i siracusani che, durante la Seconda Guerra mondiale si sono raccolti proprio in queste grandi stanze, in attesa che i bombardamenti finissero di invadere la città. Furono necessarie delle squadre di pirriatori (chi lavorava nelle cave) per ampliare i vani e per scavare appositamente una stanza dove custodire il simulacro di Santa Lucia. Chissà che cosa ne avrebbe pensato il vescovo Paolo Faraone, che nel Seicento fece scavare questa cisterna per rifornire il palazzo arcivescovile e tutta Ortigia. Questo posto fu anche una cava, da cui venne estratta la pietra per la costruzione della facciata della cattedrale. Percorrerlo significa fare un viaggio tra pozzi e antiche cisterne, ma soprattutto percorrere a ritroso la vita più profonda di Siracusa.
Tra i presepi e i gioielli dei “mastri curaddari”
All’interno del complesso dell’Annunziata, lì dove il tempo sembra essersi fermato, nei primi anni del Novecento sorge il museo intitolato ad Agostino Pepoli, nobiluomo trapanese – proprietario di buona parte delle collezioni esposte – dove è possibile ripercorrere il passato di Trapani dalla preistoria al XIX secolo, con particolare riferimento alle arti decorative e applicate nelle quali la città tra i due mari, tra il XV e il XVII secolo, si distinse soprattutto per la lavorazione del corallo ad opera dei “mastri curaddari”. Tante anche le realizzazioni in maiolica, gli ori, gli argenti e le sculture presepiali, dove il corallo diventa protagonista assoluto ed è ulteriormente adornato da smalti e pietre preziose.
Un tuffo nel candore degli stucchi di Serpotta
Nel cuore del centro storico, ecco la chiesa di San Lorenzo, sorta tra il 1650 e il 1655, probabilmente sui resti di un edificio preesistente. Costituisce un raro modello di “barocchetto” siciliano, divulgato in Sicilia dagli scultori palermitani della bottega del grande Giacomo Serpotta, il genio dello stucco, l’artista che diede a questo materiale povero la dignità del marmo. Da ammirare, quindi, la decorazione settecentesca, di chiara scuola serpottiana, su disegni del Maestro. Gli stucchi sfarzosi ricoprono le pareti interne della chiesa, con un apparato allegorico composto da otto statue di donna, trattate a tutto tondo, personificazione delle Virtù morali. La cupola è decorata con un immenso e vorticoso affresco del pittore agrigentino Michele Narbone, secondo gli stilemi illusionistici del tempo.