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20 Via Venezia

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Abstract

Il locale nato nel Dopoguerra dall’ex garzone di cucina
Anno 1944, nasce l’osteria “Al Ferro di Cavallo” in via Venezia, nel vecchio centro storico. Il fondatore è Giuseppe, noto come Pinuzzo, che prima lavorava in una fabbrica di cassette di legno per agrumi da esportare, spazzata via dalla guerra. Dopo il conflitto, Giuseppe divenne il garzone del ristorante alle spalle del Teatro Biondo. Mille lire settimanali la sua paga. Per arrotondare cominciò a industriarsi in cucina: fagioli con sedano, fave con verdura, polpette di sarde, tutti piatti che ancora si preparano nell’odierna trattoria “Ferro di cavallo” dalle pareti rosse, di cui è titolare dal 1980 Franco Ciminna, figlio di Pinuzzo, con i suoi figli Giuseppe e Valerio. Al vecchio menu hanno aggiunto il bollito di vitello, la caldume in brodo, le polpette di carne perché “nonostante la crisi, siamo un po’ più ricchi e la carne possiamo permettercela”.
Mappa


L’arte del presente nello scrigno del Settecento
Se l’idea è quella di creare un fil rouge tra l’arte del passato e del presente con una proiezione verso quella del futuro, fa capolino il MACS. La Badia Piccola del Monastero di San Benedetto – sede del museo e sito Unesco – rappresenta, infatti, un recipiente architettonico di grande valore artistico che – unendo in modo magistrale l’arte del nostro tempo e la bellezza architettonica settecentesca – diventa appendice dei contenuti estetici di oggi, esprimendosi tramite la fusione di tutti i linguaggi dell’arte visiva e il contesto barocco. Il museo arte contemporanea Sicilia vuole valorizzare i beni culturali del patrimonio siciliano, promuovendo la conoscenza dell’arte contemporanea italiana e internazionale con i suoi artisti già noti e i talenti emergenti.
L’antico luogo di preghiera delle monache di clausura
Dopo un periodo di accurati lavori, questa chiesa è tornata a essere fruibile con tutta la sua storia legata soprattutto al monastero annesso, un tempo tra i più grandi e ricchi della città. Fu edificata nel XVII secolo, su progetto di Michelangelo Bonamici. Il terremoto del 1693 danneggiò l’intero complesso religioso, causando ingenti crolli del campanile e della sacrestia. Le monache di clausura furono costrette ad andar via in tutta fretta e a trasferirsi nel Palazzo arcivescovile. Nel 1703 iniziò l’opera di ricostruzione, sotto la direzione di Pompeo Picherali che cercò di attenersi all’originario disegno di Michelangelo Bonamici. Nella seconda metà dell’Ottocento, il monastero cambiò destinazione d’uso e venne adibito a sede della Prefettura. Oggi, dopo i recenti restauri, ammiriamo la bella chiesa con il portale originario quattrocentesco. All’interno, tre tele di pregio, opera di Onofrio Gabrielli: “La Madonna della Lettera”, “Il martirio di santa Lucia”, “La strage degli Innocenti”.
Cinque navate e l’organo dei record
La tradizione racconta che sia stata la prima chiesa cristiana edificata a Trapani, su un tempio pagano. Più volte ricostruita nell’arco dei secoli, San Pietro nella seconda metà del 1700 fu ampliata e restaurata con la partecipazione dell’architetto Giovanni Biagio Amico, ma subito dopo rimaneggiata dal suo allievo Lugiano Gambina. Nel 1968, a causa del terremoto nella valle del Belice, rimase danneggiata. In seguito, è stata consolidata e ristrutturata. Unica chiesa trapanese con cinque navate, conserva al suo interno opere di artisti locali del XVII secolo, quali i dipinti di Andrea Carreca, un Crocifisso di Giuseppe Milanti e il “San Pietro in cattedra” di Mario Ciotta. Custodisce anche l’organo più complesso d’Europa, realizzato tra il 1836 e il 1847 da Francesco La Grassa, in grado di riprodurre, grazie a un ingegnoso meccanismo, i più poliedrici effetti sonori.
Il tesoro settecentesco donato dal vescovo
Il vescovo Andrea Lucchesi Palli, di nobile famiglia e di grande cultura, il 16 ottobre 1765 fondò la Biblioteca Lucchesiana “senza risparmio di fatiche né di spese”, per contribuire alla formazione di “maturi cristiani e responsabili cittadini”. Donò alla comunità cristiana un edificio di sua proprietà, adiacente al Palazzo vescovile, e tutto il suo patrimonio librario, poi ulteriormente arricchito nel corso dei secoli. Oggi la Biblioteca custodisce sessantamila volumi preziosi: manoscritti, incunaboli, testi arabi e codici miniati. Si ispira, nell’impianto progettuale, a quella di San Martino delle Scale realizzata dall’architetto palermitano Giuseppe Venanzio Marvuglia: pianta rettangolare, scaffalature in due ordini sovrapposti e ballatoio per la fruizione dei livelli superiori, protetti da ringhiera in ferro battuto. Un luogo di sapere e di intime meditazioni.
Nel cuore del Palazzo comunale due luoghi della memoria
Palazzo Zanca, sede del Comune, custodisce due raccolte museali molto interessanti sull’antica Zancle e sulle tradizioni popolari locali. L’Antiquarium espone preziosi reperti archeologici, che ricostruiscono la storia della città dal periodo greco a quello medievale, rinvenuti, negli ultimi decenni, nell’area del cortile interno dello stesso Palazzo o in altri siti vicini. La mostra permanente sulla “Vara” di Ferragosto e sui Giganti Mata e Grifone, ritenuti i progenitori dei messinesi, raccoglie, invece, materiale iconografico relativo alla celebre festa dello Stretto, che ha come protagonista, dal 1535, la machina piramidale dell’Assunta. La processione, con migliaia di fedeli, incantò anche famosi scrittori e viaggiatori del Grand tour. La rassegna espositiva è stata allestita grazie a una sinergia tra Comune, Comitato Vara e Associazione Amici del Museo. Rappresenta il primo nucleo di un costituendo Museo della Vara e dei Giganti.
Medioevo e Grande Guerra, dove le epoche si intrecciano
Qui convivono il passato remoto e quello prossimo: la torre merlata medievale e il Sacrario. La prima è quella appartenente all’antica fortezza di Rocca Guelfonia, dove nel 1284 venne rinchiuso Carlo II d’Angiò “lo storpio”, sconfitto in una battaglia navale dalla flotta siciliana-aragonese. Sulla torre, c’è la terza campana più grande d’Italia, con il bronzo fuso dei cannoni del primo conflitto mondiale. Accanto, l’imponente Sacrario inaugurato nel 1937, ispirato alla basilica di Superga, con una cupola in stile barocco. Edificio-simbolo di memoria storica, per rendere omaggio ai soldati morti nelle due guerre. In una nicchia della scalinata esterna c’è una scultura marmorea di Cristo Re realizzata da Tore Calabrò. Dentro, riposano le salme dei caduti e su di loro veglia il monumento al Milite ignoto di un altro artista messinese, Antonio Bonfiglio. Le due grandi tele sono di Salvatore e Guido Gregorietti. Circondano la scupola le otto statue in bronzo di Teofilo Raggio, in stile razionalista, raffiguranti le Virtù teologali e cardinali.
Il forno che macinava con l’asino e che ora dona ai bisognosi
L’arte di impastare e lievitare viene da lontano. Dieci anni prima che Garibaldi entrasse a Palermo da Porta dei Termini c’era già un Lo Coco che panificava nel cuore di Ballarò, nella bottega di via Collegio di Maria al Carmine. Ad assicurare ai clienti rimacinati, mafalde e brioches era il forno “Stella”, un tempo a legna: l’odore del pane lievitato e dei biscotti quaresimali si spandeva invitante per i vicoli. Nello spazio accanto al vicolo i Lo Coco avevano persino la mola azionata dall’asino, che serviva per macinare il grano. Il forno era anche chiamato “del Venerdì”, un nome dovuto alla vicina congregazione delle Anime sante del Purgatorio. Nel 2003, Roberto Lo Coco ha rinnovato tutto, ma è rimasto l’imprinting originale. Ogni giorno il forno dei Lo Coco produce duecento chili di pane e una parte dell’invenduto è donato ai bisognosi del quartiere.
La gastronomia storica nel cuore della Vucciria
Nel cuore del mercato della Vucciria, in via Pannieri, dal 1934 c’è una gastronomia storica che a pranzo si popola di lavoratori e turisti: è la gastronomia fondata da Domenico Minà e oggi portata avanti dai nipoti Domenico e Francesco Paolo, praticamente cresciuti dietro al bancone. È la tipica trattoria siciliana a gestione familiare, dove trovare una cucina casalinga, con i suoi tavoli che si riempiono presto di pietanze fresche che fanno ingolosire anche i passanti. I due fratelli si alternano velocissimi tra decine di panini con panelle e crocchè di patate, insalate di mare, sarde a beccafico, coloratissimi piatti di pesce e verdure e primi piatti serviti anche in una saletta di fronte con qualche tavolo e posto a sedere. Alle pareti le foto storiche in bianco e nero dei proprietari, tra i clienti famosi che hanno fatto tappa qui il regista Gabriele Salvatores. È aperto solo a pranzo.
Frutta secca, canditi e spezie Qui si respira il Mediterraneo
Un luogo che esprime pienamente l’anima multietnica del mercato di Ballarò. Esposti come in un suq arabo e circondati da dipinti e simboli di Palermo, si possono trovare legumi, frutta disidratata, frutta candita, preparati per pasticceria ma soprattutto frutta secca, spezie e aromi provenienti da diverse parti del mondo: dai tipici prodotti delle produzioni siciliane, come i pistacchi di Bronte e le mandorle di Santo Stefano Quisquina, ai prodotti esotici, come le noci americane e quelle brasiliane. Nel laboratorio adiacente al negozio, Gianni Cannatella realizza personalmente la tostatura e prepara il cosiddetto passatempo: calia e semenza, ossia ceci e semi di zucca tostati. Cannatella si è recentemente dotato di una macchina di ultima generazione, ma in trent’anni di attività ha sperimentato tutte le diverse tecniche di tostatura.
Un angolo di Belle Epoque progettato da Ernesto Basile
Nascosto nel cuore del centro storico, a due passi dall’Antica Focacceria San Francesco, in via Alessandro Paternostro, sorge, dal 1902, la gioielleria Sutera. Il locale, progettato da Ernesto Basile, per più di un secolo, ha mantenuto la struttura e l’arredamento originario, essendo vincolato come bene storico. Affiancato dalle facciate dei palazzi nobiliari, conta tredici vetrine su via Paternostro, con la facciata e l’insegna nel classico stile verde brillante e oro. Qui gravitava il bel mondo e ancora i “ruggenti anni Venti” si trovano nello stile della cassaforte e negli arredi. Qui si veniva per la perfezione degli orologi di tradizione tedesca e le creazioni di oreficeria della casa. Nel laboratorio si lavora su oro bianco e giallo, pietre preziose e dure. A gestire l’attività è oggi Alfredo Ragonese, nipote per parte di madre di Alfredo Sutera.
Tisane offerte di buon mattino come ai tempi degli arabi
Nel 1938, Antonio Ciccarello, originario di Polizzi Generosa, apre l’attività nei locali del Teatro Biondo, dopo aver conseguito il diploma di erborista , primo nel Sud del Regno d’Italia. Di recente l’antica bottega è stata costretta a lasciare la sua storica ma si è spostata proprio di fronte, andando a occupare i locali che furono del noto negozio di scarpe Machì, dopo aver restaurato e adattato al nuovo uso perfino la vecchia insegna Liberty. Matteo Arrivas, attuale gestore dell’erboristeria, per il resto, ha mantenuto esattamente la tipologia, lo stile, lo spirito di un tempo: ancora adesso, come faceva lo zio Nino anticamente, offre le tisane in mescita di buon mattino, perpetuando così una tradizione – quella dell’assunzione di acque calde terapeutiche – che ha origine dagli arabi. Tra i clienti tanti anziani, soprattutto del quartiere.
Qui nacque il “giardinetto” per festeggiare Garibaldi
Era una delle più famose sorbetterie dell’Ottocento, quando il Foro Italico era popolato di carrozze e di signore con le trine e l’ombrellino da sole, quando il mare era ancora vicino alla riva e i bambini del popolo facevano il bagno lì. Fu fondato da Giuseppe Cacciatore, personaggio mitico che le foto ritraggono con baffi spioventi, nel 1860, per festeggiare l’entrata di Garibaldi. Poco dopo inventò un gelato rosso, verde e bianco (fragola, pistacchio e cedro), l’antesignano dell’attuale “giardinetto”. Crispi era un frequentatore abituale. Franca Florio amava il sorbetto alla fragola e Vittorio Emanuele Orlando il gelato di caffè imbottito con la panna. Allora l’attività prendeva il nome del suo titolare, “Giuseppe Cacciatore gelatiere”. Tra i suoi dodici commessi c’era il dodicenne Giovanni Ilardo che, alla sua morte, divenne titolare della sorbetteria e diede il suo nome al locale storico.

Nella casa del compositore che morì a soli 34 anni
Un musicista dal viso d’angelo, simbolo della genialità di Catania, amato non solo in Sicilia, ma in tutta Italia e nel mondo. Fu forse la sua morte precoce (aveva meno di 34 anni) e quel talento unito alla gentilezza dell’aspetto che fecero sì che, già nel 1919, il Real Circolo Bellini avviasse una sottoscrizione per fare della casa del musicista un monumento nazionale. Cosa che avvenne, a dispetto di difficoltà e impedimenti. Il 5 maggio 1930 fu inaugurato infatti in pompa magna il museo belliniano: era presente il re, Vittorio Emanuele III. Uno spazio piccolo, cinque stanze in tutto, occupato per intero da cimeli che raccontano la storia del musicista e della sua famiglia tra dipinti, libri, spartiti originali, strumenti musicali, scritti autografi. E perfino, secondo l’usanza dei tempi, la maschera mortuaria del compositore. Di particolare interesse la raccolta di autografi belliniani, tra cui numerosi abbozzi. Percorrere queste stanze significa insomma rivivere la vita dell’autore di Norma attraverso il doppio binario della sfera pubblica e di quella privata, con le stampe su Catania antica, le delibere del governo cittadino, ma anche gli oggetti di uso quotidiano, i ritratti. E perfino due tappeti che gli dovevano essere particolarmente cari, perché ricamati da Giuditta Turina, la sua amante.
Un affascinante gioco di scatole cinesi nel cuore della città
Immaginate di trovarvi a camminare immersi nel bianco della luce che ha solo Siracusa, e di essere esattamente nel cuore di questa straordinaria città, a Ortigia.
E, ancora, immaginate di imbattervi, così avvolti dalla luce, in uno scrigno gigantesco, pronto ad aprirsi per svelarvi innumerevoli tesori. Non abbiate dubbi: siete arrivati proprio al Duomo, dalla splendida facciata barocca che sorprende alla sola vista. Al suo interno, però, come in un affascinante gioco di scatole cinesi, è custodito il tempio di Atena, tra i monumenti in stile dorico meglio conservati dell’isola, voluto dal tiranno Gelone per ringraziare la dea della vittoria sui Cartaginesi.
E troverete traccia della splendida chiesa bizantina che inglobò il tempio con tale armonia da fare innamorare il vescovo Zosimo, nel VII secolo, di un amore così profondo da indurlo a farvi la sede della Cattedrale, che sostituì San Giovanni alle catacombe. In questo gioco di rimandi alle diverse culture non poteva mancare la dominazione araba: probabilmente, nel XII secolo, questo edificio dalle innumerevoli vite fu anche una moschea.
Da carcere a museo. Ecco l’antica Vicaria
A dare il benvenuto ai visitatori sono due grandi telamoni sulla facciata esterna. Questo è uno dei più severi palazzi di Trapani, detto della Vicaria, perché qui aveva sede l’antico Tribunale. Sorto tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII, venne poi ribattezzato Palazzo del carcere poiché l’edificio, fino al 1965, ospitò pure i detenuti. Nel 2015 è stato trasformato in Museo d’arte moderna e contemporanea, gestito dall’associazione La Salerniana. La collezione, raccolta grazie alle generose donazioni di alcuni artisti, comprende varie opere dagli anni Cinquanta a oggi. Tra i nomi, spiccano quelli di Carla Accardi, Pietro Consagra, Pino Pinelli. Nelle numerose sale, con un pregevole allestimento, coesistono diversi linguaggi artistici, tendenze e stili.
Un pellegrinaggio laico, tra antiche carte, pini solitari e argille azzurre a picco sul mare africano
“Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano”: così, Luigi Pirandello descriveva la propria venuta sulla terra.
E quel pino solitario esiste davvero, lungo il sentiero a destra della casa. Solo che, danneggiato da una tromba d’aria che nel 1997 lo travolse tanto da tranciargli la chioma, oggi non ne resta che una sezione. Ma lì sono racchiuse le ceneri del poeta, drammaturgo e scrittore, tornato idealmente nel luogo in cui cadde come una lucciola, per nascere.
Basterebbero queste emozioni, e la vista del panorama che si tuffa nelle argille azzurre sul mare africano, per giustificare la visita. Ma al primo piano dell’abitazione c’è il museo dedicato a Pirandello, con mostre temporanee dedicate al Maestro e, una vasta collezione di cimeli, fotografie, lettere, recensioni, onorificenze, libri in prima edizione con dediche autografe, quadri d’autore dedicati e locandine delle opere pirandelliane più famose rappresentate in tutto il mondo.
Un museo sui generis, da cui certamente avrete qualche difficoltà a separarvi.
Tra storie della città e un leone ruggente, il più grande marchingegno del mondo
Non si può pensare a Messina senza che la mente vada a uno dei suoi simboli più significativi : l’orologio astronomico.
Incastonato nel campanile del Duomo, faticosamente rimesso in piedi dopo il terremoto del 1908, ha visto la luce grazie agli operai-artisti della prestigiosa ditta Ungerer, di Strasburgo. I meccanismi, infatti, riprendono un po’ quelli dell’orologio astronomico della città nordeuropea; ma uno “zampino” lo mise anche Papa Pio XI, che regalò all’allora arcivescovo della città, Angelo Paino, un modellino funzionante del famoso orologio. E questi ne fu così entusiasta che ne commissionò uno simile, dando vita così al più grande e più complesso orologio astronomico del mondo.
Qui, il tempo è scandito attraverso un vero e proprio racconto con personaggi semoventi: al primo piano è raffigurata l’esperienza terrena con statue simbolo delle fasi della vita – infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia – tra cui, beffarda, si cela la morte.
Più sotto, invece, ecco i giorni della settimana, impersonati da altrettante divinità greche alla guida di un carro trainato da differenti animali.
Il secondo piano è dedicato alla vita di Cristo (nascita, Pasqua e Pentecoste) mentre il terzo, dominato da un poderoso gallo, racconta la rinascita di Messina con le statue di Dina e Clarenza, valorose cittadine dei Vespri siciliani, simbolo della lotta contro gli Angioini. Infine, il leone: stringe la bandiera di Messina e la fa sventolare tre volte al giorno. E a mezzogiorno, puntuale, ruggisce, per ricordare a tutti la forza d’animo della sua gente.

Quando la Madonna, in soccorso di Messina, deviò con le mani le frecce dei francesi
Era il 1282 e i messinesi erano insorti contro lo strapotere e l’insolenza dei francesi. Erano i Vespri siciliani, insomma.
E la Madonna delle vittorie apparve nel luogo in cui infuriava la lotta e in cui oggi sorge il Santuario di Montalto: una dama bianca, che con le mani deviava le frecce nemiche e con le vesti copriva le mura di Messina, rendendole invisibili ai soldati francesi. La leggenda racconta ancora che, poco dopo il prodigioso evento, Maria apparve in sogno a un frate, Nicola, chiedendogli di fare sorgere proprio lì un luogo di culto a lei consacrato. Il giorno seguente, a mezzogiorno, il fraticello convocò le più alte cariche cittadine, e una colomba, con il suo volo, delimitò il terreno, che venne poi acquistato dal Senato messinese. Una leggenda così impressa nella memoria collettiva da essere ricordato nel campanile del Duomo con un quadro semovente.
Nel 1295 la chiesa fu aperta ai fedeli e si diffuse il culto della Madonna di Montalto, ma nel 1908 il terremoto distrusse l’intero complesso, poi completamente ricostruito.
Dal santuario, visibile da ogni parte della città, si gode di una vista mozzafiato, ma da ammirare è anche lo splendido crocifisso cinquecentesco miracolosamente (è il caso di scriverlo) rinvenuto dopo i crolli del terremoto.
I ceramisti venuti da Napoli diventati tesori umani dell’Unesco
Varcare la soglia del negozio di Arcangela Piscitello, in quel tratto di via Libertà in cui ancora si scorgono le suggestioni di una Belle Epoque dai rimandi parigini, è entrare in un mondo. I Piscitello sono ceramisti dal 1683, quando Rosario da Napoli si trasferì a Santo Stefano di Camastra, appena ricostruita, portando con sé i colori tipici della tradizione partenopea. Molte generazioni dopo, eccelse così tanto nel mestiere secolare degli avi da essere nominato nel 2006 tesoro umano vivente dall’Unesco. Una passione trasmessa agli eredi: a popolare la loro immaginazione ci sono i colapesce, suggestive sculture che declinano il tema del mare, ma anche classici come la lumiera di Sant’Antonio (che illuminava le case prima dell’elettricità), e la matrangela, metà angelo e metà donna, recuperata dall’Ottocento siciliano, tornata a essere un dono simbolo di gioia e prosperità.
“Monelle”, fiere, dee, barocche Ecco le ceramiche al femminile
Dopo avere fatto il giornalista, un bel giorno di circa trent’anni fa, Emilio Angelini venne risucchiato dalla sua antica passione, quella che gli aveva fatto scegliere il liceo artistico. Cominciò così un lavoro appassionato di creazione e di ricerca che lasciava spazio per poco altro: all’inizio, però, la timidezza aveva la meglio su Emilio, tanto da impedirgli di firmare i suoi pezzi. Finché non incontrò Pietra Gramasi, sua inseparabile compagna di liceo, ceramista anche lei, che diventò la sua compagna anche nella vita, spingendolo a dare una chiara paternità alle opere. La bottega d’arte di Emilio Angelini è un piccolissimo scrigno in cui vivono creature fantastiche. Ci sono le “monelle pazze”, che racchiudono i caratteri di ogni donna: chi con il seno fieramente scoperto, come una ninfa eterna, chi con la vanità di un orecchino al lobo, chi con i capelli fieri e indomabili.