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Abstract

L’arte della sagoma e dei gioielli “poveri”
Sirene, cavallucci marini, fantasie circensi e trapezisti, cani, gatti, Mary Poppins: cos’hanno in comune? Sono tutte creazioni di Federica Cottone che nel suo laboratorio, dopo un percorso a metà tra la scuola di oreficeria e gli esperimenti da artigiana, realizza gioielli lavorando metalli poveri. Ottone, rame, alpacca nelle sue mani diventano collane, orecchini e bracciali originali da indossare. Ad affascinarla sono proprio i segni del tempo che lasciano traccia di sé sulle sue creazioni. Ma prima di iniziare è la sagoma di ogni cosa a ispirarla, soprattutto quando una creazione le viene commissionata. Tra le richieste più curiose che le siano state fatte ci sono il sottomarino iconico dei Beatles, il bacio di Frankenstein alla sua compagna, e l’auto bianchina di Fantozzi con annessa nuvola del malaugurio.
Mappa

A spasso con gli dèi, tra le opere dei Greci in Sicilia
Non c’è da stupirsi che la Valle dei templi sia tra le mete più frequentate, raccontate e celebrate dai viaggiatori che, da sempre, approdano ad Agrigento. Tra le più importanti testimonianze della presenza dei greci in Sicilia, questa valle disseminata di opere d’arte era tra le tappe obbligate del Grand Tour. Chi avesse voluto assimilare l’arte classica, non poteva che tuffarsi in questa costellazione di bellissimi templi in stile dorico, tutti costruiti intorno al V secolo avanti Cristo. Ancora oggi, in pochi resistono al fascino di passeggiare… in mezzo agli dèi, tra il tempio di Zeus, quello dei Dioscuri, quello di Ercole. Molte di queste testimonianze sono state danneggiate dalla mano dell’uomo o dal tempo, ma l’impatto emotivo è fortissimo comunque: si ha la sensazione di vedere scorrere un tempo infinito, denso di storia. Il meglio conservato resta però il tempio della Concordia, in perfetto stile dorico, che rimanda immediatamente al Partenone di Atene. Nel VI secolo dopo Cristo venne trasformato in chiesa: e fu questo, probabilmente, a salvarlo dai saccheggi. Curiosamente, il nome che lo ha reso celebre nel mondo non ha alcuna relazione con il tempio: a chiamarlo “della concordia” fu infatti lo storico del Quattrocento Fazello che, semplicemente, ritrovò nelle vicinanze un’iscrizione latina con questa parola.
Lo scrigno degli undici fercoli in processione il Venerdì Santo
Questo edificio religioso custodisce gli undici gruppi statuari che rappresentano le “stazioni” della Passione di Cristo, portati in processione il Venerdì Santo. Si tratta di una tradizione molto cara ai messinesi, le cui origini risalgono al XVI secolo. I simulacri, fino al terremoto del 1783, erano conservati in una cappella annessa al palazzo cinquecentesco appartenuto ai principi Balsamo e poi alla famiglia Grano, sede delle Arciconfraternite del Rosario dei Santi Apostoli Simone e Guida e del Rosario della Pace e dei Bianchi. Crollati palazzo e cappella, nel 1932 venne costruito un nuovo Oratorio della Pace, che ha come portale d’ingresso un finestrone del 1609, proveniente dal monastero di San Placido Calonerò. Oggi l’Oratorio è di proprietà dell’Arciconfraternita degli Azzurri e della Pace dei Bianchi, mentre le undici “Varette” sono sotto la custodia della Confraternita del Santissimo Crocifisso.

Storia del cinema e antiche mappe nell’ex stabilimento industriale
Dopo un’operazione di riqualificazione dell’area delle raffinerie di zolfo – estratto dalle miniere dell’entroterra siciliano – in prossimità della stazione e del porto, i camini per la dispersione dei fumi provenienti dalle fabbriche sono diventati ciò che oggi è il centro fieristico polifunzionale Le Ciminiere. Questo prezioso esempio di archeologia industriale ospita anche alcune mostre permanenti, come il museo dello Sbarco in Sicilia del 1943, che racconta la storia del secondo conflitto mondiale in Sicilia attraverso fotografie d’epoca, registrazioni, riproduzioni in scala e reperti; quello del Cinema che – partendo dallo sviluppo tecnico fino all’evoluzione stilistica – racconta l’invenzione della settima arte. Affascinante anche la mostra permanente di carte geografiche antiche della Sicilia/Collezione La Gumina, con oltre 140 cartine databili dal XV al XIX secolo, portolani e atlanti tascabili.
Quando Caravaggio arrivò a Siracusa
Non è certo un mistero il legame che unisce santa Lucia alla sua città. La martire era però già commemorato alla fine del IV secolo. Lo dimostra questa iscrizione, scoperta dall’archeologo Paolo Orsi nella catacomba cittadina di San Giovanni: “Euschia, irreprensibile, vissuta buona e pura per circa 25 anni, morì nella festa della mia santa Lucia, per la quale non vi è elogio come conviene. Cristiana, fedele, perfetta, riconoscente a suo marito di una viva gratitudine”. È la dedica, straziante e dolcissima, di un marito alla sua giovane moglie. Fino al secolo XV, Santa Lucia alla Badia era un monastero, raso al suolo dal terremoto del 1693 e ricostruito per volere delle suore cistercensi. Il martirio di questa giovane e risoluta donna non lasciò indifferente neanche Caravaggio, che nel 1608, durante la sua permanenza in città, dipinse “Il seppellimento di Santa Lucia”, che si trova proprio in questa chiesa. Un capolavoro, si dice, realizzato in poco più di un mese.
Il Crocifisso dei prodigi dove riposano sovrani e cavalieri
Si trova nella parte più alta del centro storico e fu edificata dai domenicani, sui resti della chiesa di Santa Maria, durante il regno di Giacomo D’Aragona che, nel 1289, concesse il sito. Nonostante le trasformazioni e le modifiche subite nel corso dei secoli, la facciata conserva ancora un bel rosone trecentesco. All’interno, da ammirare l’affresco bizantineggiante della Madonna del Latte e la settecentesca cappella del Crocifisso, progettata da Giovanni Biagio Amico, che custodisce sull’altare un raro esempio di Crocifisso doloroso gotico. A questo Crocifisso si attribuiscono diversi miracoli: il primo durante un’epidemia di peste, quando iniziò a sanguinare il costato; il secondo, in un periodo di carestia, quando un bambino si inginocchiò chiedendo del pane e il simulacro, schiodato un braccio dalla croce, glielo porse. Dall’abside, dov’è sepolto Manfredi d’Aragona, si accede alla Cappella dei Crociati con affreschi dei secoli XIV e XV.
Nella cornice neoclassica una collezione d’arte dal Seicento a oggi
Prende il nome da uno degli ultimi proprietari della dimora, il commerciante di agrumi Francesco Zito Scalici, che acquistò l’edificio nel 1909, ma le sue origini sono settecentesche. Nelle eleganti sale in stile neoclassico, distribuite su tre piani, si dipana un articolato percorso museografico. Vi si possono ammirare le collezioni pittoriche e grafiche della Fondazione Sicilia, frutto, maturato nel tempo, del recupero dei beni artistici appartenenti all’ex Banco di Sicilia, del patrimonio dell’ex Cassa di Risparmio “Vittorio Emanuele” e di successive donazioni private. Visitare la mostra permanente è come viaggiare attraverso i secoli e passare in rassegna tanti stili artistici, dal Seicento ai giorni nostri con nomi che parlano da soli: Preti, Lojacono, Leto, Catti, De Maria Bergler, Sironi, De Pisis. Oltre alla pinacoteca, la Villa ospita spesso vari eventi culturali.
Nel cuore del Palazzo comunale due luoghi della memoria
Palazzo Zanca, sede del Comune, custodisce due raccolte museali molto interessanti sull’antica Zancle e sulle tradizioni popolari locali. L’Antiquarium espone preziosi reperti archeologici, che ricostruiscono la storia della città dal periodo greco a quello medievale, rinvenuti, negli ultimi decenni, nell’area del cortile interno dello stesso Palazzo o in altri siti vicini. La mostra permanente sulla “Vara” di Ferragosto e sui Giganti Mata e Grifone, ritenuti i progenitori dei messinesi, raccoglie, invece, materiale iconografico relativo alla celebre festa dello Stretto, che ha come protagonista, dal 1535, la machina piramidale dell’Assunta. La processione, con migliaia di fedeli, incantò anche famosi scrittori e viaggiatori del Grand tour. La rassegna espositiva è stata allestita grazie a una sinergia tra Comune, Comitato Vara e Associazione Amici del Museo. Rappresenta il primo nucleo di un costituendo Museo della Vara e dei Giganti.
Medioevo e Grande Guerra, dove le epoche si intrecciano
Qui convivono il passato remoto e quello prossimo: la torre merlata medievale e il Sacrario. La prima è quella appartenente all’antica fortezza di Rocca Guelfonia, dove nel 1284 venne rinchiuso Carlo II d’Angiò “lo storpio”, sconfitto in una battaglia navale dalla flotta siciliana-aragonese. Sulla torre, c’è la terza campana più grande d’Italia, con il bronzo fuso dei cannoni del primo conflitto mondiale. Accanto, l’imponente Sacrario inaugurato nel 1937, ispirato alla basilica di Superga, con una cupola in stile barocco. Edificio-simbolo di memoria storica, per rendere omaggio ai soldati morti nelle due guerre. In una nicchia della scalinata esterna c’è una scultura marmorea di Cristo Re realizzata da Tore Calabrò. Dentro, riposano le salme dei caduti e su di loro veglia il monumento al Milite ignoto di un altro artista messinese, Antonio Bonfiglio. Le due grandi tele sono di Salvatore e Guido Gregorietti. Circondano la scupola le otto statue in bronzo di Teofilo Raggio, in stile razionalista, raffiguranti le Virtù teologali e cardinali.

L’arte del presente nello scrigno del Settecento
Se l’idea è quella di creare un fil rouge tra l’arte del passato e del presente con una proiezione verso quella del futuro, fa capolino il MACS. La Badia Piccola del Monastero di San Benedetto – sede del museo e sito Unesco – rappresenta, infatti, un recipiente architettonico di grande valore artistico che – unendo in modo magistrale l’arte del nostro tempo e la bellezza architettonica settecentesca – diventa appendice dei contenuti estetici di oggi, esprimendosi tramite la fusione di tutti i linguaggi dell’arte visiva e il contesto barocco. Il museo arte contemporanea Sicilia vuole valorizzare i beni culturali del patrimonio siciliano, promuovendo la conoscenza dell’arte contemporanea italiana e internazionale con i suoi artisti già noti e i talenti emergenti.
L’antico luogo di preghiera delle monache di clausura
Dopo un periodo di accurati lavori, questa chiesa è tornata a essere fruibile con tutta la sua storia legata soprattutto al monastero annesso, un tempo tra i più grandi e ricchi della città. Fu edificata nel XVII secolo, su progetto di Michelangelo Bonamici. Il terremoto del 1693 danneggiò l’intero complesso religioso, causando ingenti crolli del campanile e della sacrestia. Le monache di clausura furono costrette ad andar via in tutta fretta e a trasferirsi nel Palazzo arcivescovile. Nel 1703 iniziò l’opera di ricostruzione, sotto la direzione di Pompeo Picherali che cercò di attenersi all’originario disegno di Michelangelo Bonamici. Nella seconda metà dell’Ottocento, il monastero cambiò destinazione d’uso e venne adibito a sede della Prefettura. Oggi, dopo i recenti restauri, ammiriamo la bella chiesa con il portale originario quattrocentesco. All’interno, tre tele di pregio, opera di Onofrio Gabrielli: “La Madonna della Lettera”, “Il martirio di santa Lucia”, “La strage degli Innocenti”.
Cinque navate e l’organo dei record
La tradizione racconta che sia stata la prima chiesa cristiana edificata a Trapani, su un tempio pagano. Più volte ricostruita nell’arco dei secoli, San Pietro nella seconda metà del 1700 fu ampliata e restaurata con la partecipazione dell’architetto Giovanni Biagio Amico, ma subito dopo rimaneggiata dal suo allievo Lugiano Gambina. Nel 1968, a causa del terremoto nella valle del Belice, rimase danneggiata. In seguito, è stata consolidata e ristrutturata. Unica chiesa trapanese con cinque navate, conserva al suo interno opere di artisti locali del XVII secolo, quali i dipinti di Andrea Carreca, un Crocifisso di Giuseppe Milanti e il “San Pietro in cattedra” di Mario Ciotta. Custodisce anche l’organo più complesso d’Europa, realizzato tra il 1836 e il 1847 da Francesco La Grassa, in grado di riprodurre, grazie a un ingegnoso meccanismo, i più poliedrici effetti sonori.
Il tesoro settecentesco donato dal vescovo
Il vescovo Andrea Lucchesi Palli, di nobile famiglia e di grande cultura, il 16 ottobre 1765 fondò la Biblioteca Lucchesiana “senza risparmio di fatiche né di spese”, per contribuire alla formazione di “maturi cristiani e responsabili cittadini”. Donò alla comunità cristiana un edificio di sua proprietà, adiacente al Palazzo vescovile, e tutto il suo patrimonio librario, poi ulteriormente arricchito nel corso dei secoli. Oggi la Biblioteca custodisce sessantamila volumi preziosi: manoscritti, incunaboli, testi arabi e codici miniati. Si ispira, nell’impianto progettuale, a quella di San Martino delle Scale realizzata dall’architetto palermitano Giuseppe Venanzio Marvuglia: pianta rettangolare, scaffalature in due ordini sovrapposti e ballatoio per la fruizione dei livelli superiori, protetti da ringhiera in ferro battuto. Un luogo di sapere e di intime meditazioni.
Tra storie della città e un leone ruggente, il più grande marchingegno del mondo
Non si può pensare a Messina senza che la mente vada a uno dei suoi simboli più significativi : l’orologio astronomico.
Incastonato nel campanile del Duomo, faticosamente rimesso in piedi dopo il terremoto del 1908, ha visto la luce grazie agli operai-artisti della prestigiosa ditta Ungerer, di Strasburgo. I meccanismi, infatti, riprendono un po’ quelli dell’orologio astronomico della città nordeuropea; ma uno “zampino” lo mise anche Papa Pio XI, che regalò all’allora arcivescovo della città, Angelo Paino, un modellino funzionante del famoso orologio. E questi ne fu così entusiasta che ne commissionò uno simile, dando vita così al più grande e più complesso orologio astronomico del mondo.
Qui, il tempo è scandito attraverso un vero e proprio racconto con personaggi semoventi: al primo piano è raffigurata l’esperienza terrena con statue simbolo delle fasi della vita – infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia – tra cui, beffarda, si cela la morte.
Più sotto, invece, ecco i giorni della settimana, impersonati da altrettante divinità greche alla guida di un carro trainato da differenti animali.
Il secondo piano è dedicato alla vita di Cristo (nascita, Pasqua e Pentecoste) mentre il terzo, dominato da un poderoso gallo, racconta la rinascita di Messina con le statue di Dina e Clarenza, valorose cittadine dei Vespri siciliani, simbolo della lotta contro gli Angioini. Infine, il leone: stringe la bandiera di Messina e la fa sventolare tre volte al giorno. E a mezzogiorno, puntuale, ruggisce, per ricordare a tutti la forza d’animo della sua gente.

Quando la Madonna, in soccorso di Messina, deviò con le mani le frecce dei francesi
Era il 1282 e i messinesi erano insorti contro lo strapotere e l’insolenza dei francesi. Erano i Vespri siciliani, insomma.
E la Madonna delle vittorie apparve nel luogo in cui infuriava la lotta e in cui oggi sorge il Santuario di Montalto: una dama bianca, che con le mani deviava le frecce nemiche e con le vesti copriva le mura di Messina, rendendole invisibili ai soldati francesi. La leggenda racconta ancora che, poco dopo il prodigioso evento, Maria apparve in sogno a un frate, Nicola, chiedendogli di fare sorgere proprio lì un luogo di culto a lei consacrato. Il giorno seguente, a mezzogiorno, il fraticello convocò le più alte cariche cittadine, e una colomba, con il suo volo, delimitò il terreno, che venne poi acquistato dal Senato messinese. Una leggenda così impressa nella memoria collettiva da essere ricordato nel campanile del Duomo con un quadro semovente.
Nel 1295 la chiesa fu aperta ai fedeli e si diffuse il culto della Madonna di Montalto, ma nel 1908 il terremoto distrusse l’intero complesso, poi completamente ricostruito.
Dal santuario, visibile da ogni parte della città, si gode di una vista mozzafiato, ma da ammirare è anche lo splendido crocifisso cinquecentesco miracolosamente (è il caso di scriverlo) rinvenuto dopo i crolli del terremoto.

Nella casa del compositore che morì a soli 34 anni
Un musicista dal viso d’angelo, simbolo della genialità di Catania, amato non solo in Sicilia, ma in tutta Italia e nel mondo. Fu forse la sua morte precoce (aveva meno di 34 anni) e quel talento unito alla gentilezza dell’aspetto che fecero sì che, già nel 1919, il Real Circolo Bellini avviasse una sottoscrizione per fare della casa del musicista un monumento nazionale. Cosa che avvenne, a dispetto di difficoltà e impedimenti. Il 5 maggio 1930 fu inaugurato infatti in pompa magna il museo belliniano: era presente il re, Vittorio Emanuele III. Uno spazio piccolo, cinque stanze in tutto, occupato per intero da cimeli che raccontano la storia del musicista e della sua famiglia tra dipinti, libri, spartiti originali, strumenti musicali, scritti autografi. E perfino, secondo l’usanza dei tempi, la maschera mortuaria del compositore. Di particolare interesse la raccolta di autografi belliniani, tra cui numerosi abbozzi. Percorrere queste stanze significa insomma rivivere la vita dell’autore di Norma attraverso il doppio binario della sfera pubblica e di quella privata, con le stampe su Catania antica, le delibere del governo cittadino, ma anche gli oggetti di uso quotidiano, i ritratti. E perfino due tappeti che gli dovevano essere particolarmente cari, perché ricamati da Giuditta Turina, la sua amante.
Un affascinante gioco di scatole cinesi nel cuore della città
Immaginate di trovarvi a camminare immersi nel bianco della luce che ha solo Siracusa, e di essere esattamente nel cuore di questa straordinaria città, a Ortigia.
E, ancora, immaginate di imbattervi, così avvolti dalla luce, in uno scrigno gigantesco, pronto ad aprirsi per svelarvi innumerevoli tesori. Non abbiate dubbi: siete arrivati proprio al Duomo, dalla splendida facciata barocca che sorprende alla sola vista. Al suo interno, però, come in un affascinante gioco di scatole cinesi, è custodito il tempio di Atena, tra i monumenti in stile dorico meglio conservati dell’isola, voluto dal tiranno Gelone per ringraziare la dea della vittoria sui Cartaginesi.
E troverete traccia della splendida chiesa bizantina che inglobò il tempio con tale armonia da fare innamorare il vescovo Zosimo, nel VII secolo, di un amore così profondo da indurlo a farvi la sede della Cattedrale, che sostituì San Giovanni alle catacombe. In questo gioco di rimandi alle diverse culture non poteva mancare la dominazione araba: probabilmente, nel XII secolo, questo edificio dalle innumerevoli vite fu anche una moschea.
Da carcere a museo. Ecco l’antica Vicaria
A dare il benvenuto ai visitatori sono due grandi telamoni sulla facciata esterna. Questo è uno dei più severi palazzi di Trapani, detto della Vicaria, perché qui aveva sede l’antico Tribunale. Sorto tra la fine del XVI secolo e gli inizi del XVII, venne poi ribattezzato Palazzo del carcere poiché l’edificio, fino al 1965, ospitò pure i detenuti. Nel 2015 è stato trasformato in Museo d’arte moderna e contemporanea, gestito dall’associazione La Salerniana. La collezione, raccolta grazie alle generose donazioni di alcuni artisti, comprende varie opere dagli anni Cinquanta a oggi. Tra i nomi, spiccano quelli di Carla Accardi, Pietro Consagra, Pino Pinelli. Nelle numerose sale, con un pregevole allestimento, coesistono diversi linguaggi artistici, tendenze e stili.
Un pellegrinaggio laico, tra antiche carte, pini solitari e argille azzurre a picco sul mare africano
“Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano”: così, Luigi Pirandello descriveva la propria venuta sulla terra.
E quel pino solitario esiste davvero, lungo il sentiero a destra della casa. Solo che, danneggiato da una tromba d’aria che nel 1997 lo travolse tanto da tranciargli la chioma, oggi non ne resta che una sezione. Ma lì sono racchiuse le ceneri del poeta, drammaturgo e scrittore, tornato idealmente nel luogo in cui cadde come una lucciola, per nascere.
Basterebbero queste emozioni, e la vista del panorama che si tuffa nelle argille azzurre sul mare africano, per giustificare la visita. Ma al primo piano dell’abitazione c’è il museo dedicato a Pirandello, con mostre temporanee dedicate al Maestro e, una vasta collezione di cimeli, fotografie, lettere, recensioni, onorificenze, libri in prima edizione con dediche autografe, quadri d’autore dedicati e locandine delle opere pirandelliane più famose rappresentate in tutto il mondo.
Un museo sui generis, da cui certamente avrete qualche difficoltà a separarvi.
La villa dalle forme di un castello costruita dopo il terremoto
A Castanea, frazione collinare a pochi chilometri dal centro cittadino, si nasconde un tipico esempio di architettura eclettica, che risale alla prima fase di ricostruzione di Messina dopo il terremoto del 1908. Il repertorio decorativo della Villa richiama uno stile medievaleggiante, con torrette, bifore e fregi grotteschi. La costruzione, articolata in vari corpi di fabbrica, è in armonia con il paesaggio dei monti Peloritani. Castanea era considerato un luogo ideale di villeggiatura, già nel XIX secolo, non solo per i messinesi, ma anche per alcuni aristocratici e regnanti europei, come attestano documenti e testimonianze nelle numerose ville rimaste sul territorio. Oltre all’architettura originale e alla rigogliosa vegetazione, la visita è gradevole e interessante grazie pure alla presenza di vari frammenti lapidei provenienti dalle macerie del catastrofico sisma.

Da castello medievale a prigione borbonica
Appartenevano al corpo del Castello di Matagrifone o Rocca Guelfonia, la cui fondazione, come struttura difensiva strategica, su una collinetta dominante la città, si attribuisce a Riccardo Cuor di Leone, il re inglese in viaggio nel 1190 verso il Santo Sepolcro. Oppure, una costruzione fortificata esisteva già e il sovrano la ampliò. Il nome Matagrifone deriverebbe da “Mata griffoni”, cioè ammazza i Greci-Bizantini, e Rocca Guelfonia da “Rocca del re guelfo”, ovvero Riccardo (guelfo perché sosteneva la casa di Sassonia, mentre i ghibellini parteggiavano per la casa di Svevia). La fortezza fu potenziata nei secoli XV-XVI, per volere dei sovrani Ferdinando “il cattolico” e Carlo V. Durante la dominazione borbonica, venne utilizzata come prigione dove vennero recluse anche donne. Oggi rimangono la torre accanto al nuovo Sacrario, tracce delle mura fortificate e un imponente portale cinquecentesco con mascherone, ingresso delle Carceri ottocentesche nell’omonima via. Durante la guerra, gli ambienti ipogeici furono destinati a rifugio antiaereo.