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Indirizzo
17 Via Collegio di Santa Maria

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Abstract

L’erede del puparo cresciuto a Borgo Vecchio
Enzo Mancuso, nato a Palermo nel 1974, è figlio e nipote d’arte. Esordisce a tredici anni con il suo primo spettacolo “Morte di Agricante”, che lo vede impegnato per 360 giorni consecutivi a Misilmeri. Nel 1994 inizia la sua attività con alcuni pupi ereditati dal nonno, dedicandosi anche al restauro e alla costruzione secondo le antiche tecniche dei vecchi maestri. Mancuso discende da una famiglia di pupari che diede inizio alla propria attività a Palermo nel 1928, aprendo un teatrino nel quartiere di Borgo Vecchio. Antonino Mancuso, allievo del puparo Pernice, trasferì il suo teatro in diverse zone di Palermo e in vari paesi della provincia, viaggiando a bordo di un camion trasformato in teatro, fino a quando decise di fermarsi a Palermo, in piazza don Luigi Sturzo, dove restò fino alla sua morte, nel 1988. Solo Nino collabora con il padre fino alla sua scomparsa, ed è l’unico figlio a seguirne le orme.
Mappa


L’opera dei gesuiti raccontata in una chiesa
Uno spettacolo prima ancora di entrare, visto che si trova in via dei Crociferi, la strada più scenografica del barocco catanese. Edificato nel Settecento, questo edificio racconta una lunga storia che intreccia la permanenza dei gesuiti in città a una nobile famiglia, i Borgia, da sempre legata a doppio filo al mondo della chiesa e della cristianità. È intitolata infatti a Francesco Borgia, nato nella cristianissima Spagna nel 1510, che consacrò tutta la vita a riabilitare il discusso nome del proprio casato attraverso una vita austera e morigerata. Alla morte della moglie, Eleonora, si unì alla compagnia di Gesù e da lì iniziò, instancabile, la sua opera di evangelizzazione in giro per il mondo, autorevole consigliere di imperatori, re e principi, per tornare finalmente a morire nella sua cella romana, nel 1572. E temi legati ai gesuiti sono disseminati per tutta la chiesa, a cominciare dalla cupola, affrescata da due mostri sacri del tempo: Olivio Sozzi e Vito D’Anna. Nella decorazione domina la figura di Cristo, mentre nei pennacchi della cupola, le quattro figure rappresentano i continenti evangelizzati dalla Compagnia di Gesù: Europa, Asia, Africa e America.
L’oratorio dei Quaranta martiri e la curiosità di Paolo Orsi
Le catacombe di Santa Lucia rappresentano la testimonianza di quanto fosse attiva la comunità cristiana in città già a partire dal III secolo, ma anche un esempio di trasformazione.
È uno dei pochi luoghi in città, infatti, a essere stato trasformato in luogo di culto dopo essere stato utilizzato come cimitero. Le ragioni di questo cambiamento sono diverse e vanno dalla costruzione della basilica soprastante e della chiesa del sepolcro di Santa Lucia ad alcune modifiche e demolizioni. Cambiato l’aspetto, insomma, è cambiata anche la destinazione d’uso, ma sempre per scopi religiosi.
Tra il 1916 e il 1919, l’archeologo Paolo Orsi fece un’eccezionale scoperta: notò una strana area intonacata, e scrostandola riportò alla luce il prezioso oratorio dei Quaranta Martiri di Sebastia con il suo suggestivo ciclo pittorico.
L’affresco, di grande bellezza, riproduce una grande croce gemmata che divide la superficie in quattro parti, in cui sono raffigurati, a gruppi di dieci, i Quaranta Martiri di Sebastia. Alle estremità inferiori e laterali dei bracci della croce si trovano la Vergine orante e due angeli, all’incrocio dei bracci il busto del Cristo Pantocratore. Uno spettacolo di cui ancora oggi possiamo godere proprio grazie alla sagacia e alla curiosità intellettuale di Paolo Orsi.
Da chiesa medievale a sede di preziose raccolte
Tra stemmi araldici di nobili famiglie trapanesi e busti di personaggi illustri, una scalinata conduce alla sala lettura ricavata nella duecentesca chiesa di San Giacomo Maggiore. Biblioteca civica dal 1830, l’anno successivo fu intitolata a Giovanni Battista Fardella, ministro della guerra del Regno delle Due Sicilie e collezionista d’arte che ne volle la fondazione, donando il proprio patrimonio librario. Il busto in marmo del benefattore, insieme ad altri, si trova fra due colonne di origine araba, sulle quali sono incisi versetti del Corano. Circa 170 mila sono i volumi custoditi (molti i manoscritti, gli incunaboli, le cinquecentine), di vario contenuto, appartenuti per lo più agli ordini religiosi soppressi. Tra le raccolte assai preziose, quella delle stampe incise dal veneto Giovanni Battista Piranesi.
Dietro il sipario del tempio della lirica
Che effetto fa salire sul palco del Teatro Massimo, come i cantanti d’opera, e vedere il colpo d’occhio della magnifica sala? Che effetto fa svelare i segreti del palcoscenico tra le scenografie, gli attrezzi e gli abiti di scena? Per provarlo, basterà fare questa visita che “ribalta” il punto di vista tradizionale degli spettatori. E godere in modo inedito del fascino del Teatro Massimo, terzo per dimensioni dopo l’Opéra National di Parigi e la Staatsoper di Vienna. Progettato dal celebre architetto Giovan Battista Filippo Basile e realizzato fra il 1875 e il 1897, il Teatro occupa 7.700 metri quadrati e sorge sull’area di un antico complesso religioso di suore, che fu abbattuto per far posto all’ambizioso progetto “Massimo”. Secondo una diceria popolare, la notte si aggirerebbe ancora il fantasma di una monaca del monastero demolito.
Il possente Telamone, l’Efebo, eternamente giovane e le amatissime Demetra e Persefone
È detto anche di San Nicola, proprio perché si trova dietro l’omonima chiesa.
Trovarsi in questo museo è come fare una full immersion della vita dalla preistoria all’epoca greca. Eccole, queste gemme che il tempo non ha scalfito: il Telamone, proveniente dal tempio di Zeus, il gigante Atlante per cui nessun peso sembra troppo gravoso: a lui, infatti, era toccato il compito di sostenere una trabeazione della dimora del re degli dei. E poi il guerriero, con la sua eleganza militare, e l’Efebo di Agrigento, splendida figura di giovanetto, cristallizzato nella sua eterna, verde età.
E poi, tutt’altro che di secondo piano, la produzione artigianale delle terrecotte devozionali, che gli antichi abitanti di Akragas realizzavano nelle botteghe fuori dalle mura cittadine per offrirle alle amate divinità della terra, le dee madre e figlia Demetra e Persefone. Una storia che continua, proprio attraverso queste suggestive testimonianze.
Cinque secoli di storia del modo di fare la guerra
Com’è cambiato il modo di difendersi e di attaccare? Quali differenze tra l’arte della guerra in Europa e quella americana o islamica? E come si andava a caccia un tempo? Le risposte si trovano in questa interessante esposizione con centinaia di armi che fanno parte di una collezione privata, considerata una delle più ricche al mondo. Un viaggio attraverso cinque secoli di storia documentata. La rassegna è allestita nell’ambito del Museo delle armi antiche, in alcuni locali della sede della Città metropolitana, ex Provincia. A raccogliere questi cimeli, da circa cinquant’anni, è un docente animato da grande passione, Gaetano Ori Saitta.
Vedremo armi da fuoco pesanti e leggere, “bianche” da getto, da asta, a lama lunga e corta, ma anche capi d’abbigliamento militari e oggetti utili alla difesa passiva. Cannoni, fucili, pistole, archibugi, pugnali, spade, alabarde, usati come strumenti bellici o per parate militari. Antica tecnologia, ma pure, in alcuni casi, bei pezzi di accurato artigianato artistico da ammirare.

Il gigante pieno di tesori dove tutto appare minuscolo
Con i suoi 105 metri di lunghezza, i 48 di larghezza e con un’altezza massima di circa 66 metri, è la più grande chiesa della Sicilia. Non stupisce, quindi, che anche le opere ciclopiche al suo interno appaiano di dimensioni minuscole, se confrontate con la vastità degli ambienti e con il candore dell’intonaco delle pareti, in cui sembrano fluttuare. Le cappelle, per esempio, alle quali vale la pena dare un’occhiata da vicino per ammirarne i manufatti. La loro realizzazione rivela una profusione di materiali nobili che riportano a un mondo di viaggi e di mercanti: libeccio di Trapani, alabastro di Roma, calcare alabastrino di Palermo, giallo di Siena, verde di Calabria, marmo tessalico, bianco di Carrara, marmo di Taormina, marmo di Billiemi, diaspro nero paragone, rosso di Francia, morgatello di Spagna, marmo nero di Portovenere.
Piccolo sembra anche il poderoso organo, recentemente ristrutturato, al quale il celebre organaro Donato Del Piano (poi sepolto proprio in questa chiesa) lavorò per ben dodici anni: realizzò uno strumento enorme, con 2.378 canne in legno e lega di stagno, sei mantici, cinque tastiere e settantadue registri, che poteva riprodurre qualsiasi strumento musicale ed essere suonato in contemporanea da tre organisti.
Una strada lunga caratterizza questo edificio, che fu anche il primo tempio eretto dai benedettini.
I cunicoli scavati dai Greci e i bagni rituali ebraici
Nel quartiere ebraico della Giudecca, tante testimonianze stratificate e sorprese di grande interesse. L’anno di completamento della chiesa è il 1742, come si legge sulla facciata, ma l’edificio era preesistente, riportato alla luce dalla Confraternita di San Filippo dopo il terremoto del 1693. I bombardamenti della Seconda Guerra mondiale provocarono ingenti danni e, negli anni Sessanta, a causa di cedimenti strutturali e della cupola pericolante, fu necessaria la chiusura. Riaperta nel 2010, dopo massicci interventi di restauro, oggi la chiesa è da non perdere, soprattutto per la visita dei sotterranei, una rete di cunicoli scavati al tempo dei Greci. Qui sono emerse successive tracce di ipogei paleocristiani e di un luogo di culto ebraico, con presunti bagni per la purificazione. Dopo la cacciata degli ebrei, si insediò la Confraternita, sovrapponendo la chiesa. Ed ecco la cripta con le sepolture dei confrati e affreschi settecenteschi, ma pure graffiti che risalgono alla Seconda Guerra mondiale, quando i cunicoli divennero rifugi antibombe
Tra stupore barocco e neoclassico
L’antico quartiere “palazzo”, nel cuore della città, in epoca aragonese fu suddiviso in due rioni: San Francesco e San Lorenzo. Fu qui che, intorno al 1420, il re d’Aragona Alfonso V il Magnanimo, diede l’assenso alla progettazione di una parrocchia cittadina. L’edificio attuale, però, nasce da un lavoro di rielaborazione degli spazi in stile barocco e neoclassico, avvenuto tra Settecento e Ottocento, su progetto dell’architetto locale Giovanni Biagio Amico. In occasione della nascita della diocesi di Trapani – voluta nel 1844 da Gregorio XVI – la chiesa di San Lorenzo fu elevata a Cattedrale e divenne sede vescovile. All’interno, tra affreschi e stucchi, spicca la statuetta del Cristo Morto, realizzato dallo scultore trapanese Giacomo Tartaglio con un tipo di marmo dello stesso colore dell’incarnato – quindi molto realistico – e la Crocifissione, tela del Seicento attribuita al pittore fiammingo Van Dyck.
Il capolavoro di Damiani Almeyda dominato dalla Quadriga di Rutelli
La grande passione per gli scavi di Ercolano e Pompei è alla base delle scelte stilistiche dell’architetto e ingegnere Giuseppe Damiani Almeyda, nel concepire il progetto del Politeama. Alla guida dell’ufficio tecnico del Comune di Palermo, Almeyda riuscì a realizzare l’opera e a inaugurarla nel 1874. In realtà, una prima idea era stata già avanzata nel 1860, quando il pretore Giulio Benso, duca della Verdura, aveva deciso di dotare la città di un teatro diurno e circo olimpico, vista la popolarità di spettacoli equestri e acrobatici. Ma Damiani Almeyda diede un’interpretazione personale e originale al progetto, caratterizzato da uno spiccato gusto per la policromia, colonnati e statue allegoriche. In cima al grande ingresso svetta la Quadriga bronzea di Mario Rutelli.
Lo scrigno dei tesori della Chiesa agrigentina
Epigrafi, reliquiari, dipinti, documenti e testimonianze varie. Unaricca collezione ricostruisce la storia della Diocesi agrigentina dal XII al XIX secolo. Le sale del Museo accolgono preziosi manufatti realizzati non solo da maestranze locali, ma anche nazionali e internazionali. Tra i “pezzi” medievali più rappresentativi, spiccano l’epigrafe araba del 997,rinvenuta a Lampedusa, e l’Altarolo, un altare portatile del secolo XII-XIII, di maestranze itineranti, proveniente dalla Cattedrale. Particolarmente interessante quest’ultimo manufatto, chiamato anche “l’Altarolo dei Crociati”. A ben guardarlo, la doppia croce lamellare collocata sul retro presenta i caratteri delle “stauroteche” dei pellegrini (i reliquiari destinati a contenere frammenti del legno della Croce di Cristo) incoraggiate dagli ordini monastico-cavallereschi.
Uno scrigno di saperi e di suoni millenari
Nel suggestivo e antico casale di Gesso, sui monti Peloritani, si trova uno spazio museale che documenta la cultura popolare del territorio agro-pastorale: tradizioni, lavoro, feste religiose e profane, giochi. Uno spazio etnografico interdisciplinare, che custodisce beni materiali e immateriali, patrimonio da valorizzare. Sono esposti ciaramedde (zampogne), friscaletti (flauti), tammuri e tammureddi (tamburi e tamburelli), marranzani, brogne e trumme (trombe). Di particolare interesse è il laboratorio, dove i ragazzi apprendono le tecniche di realizzazione delle zampogne e dei flauti di canna. Un ampio spazio è dedicato alla documentazione fotografica del villaggio cittadino, dal punto di vista architettonico, artistico ed etnoantropologico. C’è pure una raccolta di Pupi siciliani. E una sorpresa, le maschere della rappresentazione popolare con giochi pirotecnici detta U cavaduzzu e l’omu sabbaggiu.

Storia del cinema e antiche mappe nell’ex stabilimento industriale
Dopo un’operazione di riqualificazione dell’area delle raffinerie di zolfo – estratto dalle miniere dell’entroterra siciliano – in prossimità della stazione e del porto, i camini per la dispersione dei fumi provenienti dalle fabbriche sono diventati ciò che oggi è il centro fieristico polifunzionale Le Ciminiere. Questo prezioso esempio di archeologia industriale ospita anche alcune mostre permanenti, come il museo dello Sbarco in Sicilia del 1943, che racconta la storia del secondo conflitto mondiale in Sicilia attraverso fotografie d’epoca, registrazioni, riproduzioni in scala e reperti; quello del Cinema che – partendo dallo sviluppo tecnico fino all’evoluzione stilistica – racconta l’invenzione della settima arte. Affascinante anche la mostra permanente di carte geografiche antiche della Sicilia/Collezione La Gumina, con oltre 140 cartine databili dal XV al XIX secolo, portolani e atlanti tascabili.
Il tempio paleocristiano con le tracce degli antichi affreschi
Si trova a Ortigia, nel quartiere della Graziella, ed è conosciuta anche come San Pietro dentro le mura. Questa chiesa ha un fascino particolare per le tante stratificazioni di cui è rimasta traccia, dall’epoca paleocristiana ai giorni nostri. Costruita nel IV secolo, ricavata dalla pietra viva, in stile bizantino, fu riedificata nel periodo medievale e modificata in seguito, secondo lo stile rinascimentale e poi barocco. Salva da terremoti e bombardamenti, è stata però, a lungo, abbandonata e, infine, sconsacrata. Gli interventi all’interno, a metà del secolo scorso, hanno profondamente reinterpretato gli spazi, nel tentativo di recuperare l’aspetto originario. All’esterno, da ammirare lo splendido portale a cuspide con bassorilievi floreali e una formella circolare raffigurante la “Croce”. L’interno è spoglio, ma si conservano frammenti degli affreschi bizantini che un tempo ricoprivano l’intera basilica. Particolare l’effetto di contrapposizione luci-ombre.
Marmi mischi e candidi stucchi, il trionfo del Barocco
La costruzione della magnifica chiesa barocca venne iniziata dalla Compagnia di Gesù nel 1616, grazie anche al contributo di laute donazioni. L’edificio fu consacrato nel 1638, ma nel 1767, anno dell’espulsione dei Gesuiti, non era stato ancora ultimato. Il progetto originario è attribuito all’architetto Natale Masuccio, autore della celebre Casa Professa a Palermo, mentre il prospetto si deve a Francesco Bonamici. All’interno, risplendono marmi mischi e stucchi di Bartolomeo Sanseverino, allievo di Giacomo Serpotta. Di particolare pregio la cappella di Sant’Ignazio, opera di Giovanni Biagio Amico nell’abside; l’icona marmorea dell’Immacolata di Ignazio Marabitti; i dipinti del fiammingo Geronimo Gerardi. Attigui alla chiesa sono l’ex collegio e la casa dei Gesuiti, che, a seguito della confisca dei beni da parte dello Stato nel 1866, divennero sede del Regio Liceo e pure del Tribunale.
Il giardino per la moglie del vicerè
Allegorie, elementi simbolici, sottili rimandi a concetti filosofici e alla massoneria, rendono Villa Giulia un luogo carico di bellezza e mistero. Costruita tra il 1775 e il 1777 per volere del pretore Antonio La Grua in onore della moglie dell’allora vicerè Marcantonio Colonna, è il primo giardino pubblico a Palermo, il terzo in Europa.
Questo giardino, nonostante le trasformazioni che ha subito nel corso dei secoli, caratterizza ancora oggi una zona al limite con l’antico perimetro delle mura, a due passi dal mare e da un altro polmone verde della città, l’Orto Botanico. Dal piano generale della Villa alle singole statue che la popolano, niente è lasciato al caso, ma tutto è frutto di precise scelte che fanno di questo giardino un vero e proprio microcosmo.

Sulle tracce dei frantoio dell’antica Akragas, nel regno di Demetra e Kore e delle divinità di voragini e abissi
Un posto magico, il luogo più alto dell0antica città ellenica, da dove di dominava per intero la splendida città di Akgaras. Ma la Rupe Atenea non era soltanto il luogo da dove godere di un panorama mozzafiato: nell’area sono infatti stati trovati i resti di un frantoio ellenistico e uno dei templi delle divinità ctonie: dèi appartenenti alle profondità, siano abissi marini che voragini terrestri. Un tempio oggi parzialmente incorporato nella chiesetta medievale di San Biagio, di cui ancora si conservano il basamento e una parte delle strutture isodome dei lati. Un luogo di culto che doveva essere dedicato alle celebrazioni in onore di Demetra e Kore, così si è dedotto alla presenza di statuette e busti fittili. Neanche le altre divinità del sottosuolo venivano comunque dimenticate: l’intera area era dotata di un complesso sistema di canalizzazione delle acque, strutturato in funzione ai templi delle divinità ctonie, probabilmente per specifiche funzioni religiose. E che la Rupe Atenea avesse da sempre un richiamo mistico, è ipotizzato anche da tracce di rituali religiosi di epoca preistorica.
Il rifugio antiaereo dove si rivive la guerra
Chi ha vissuto l’esperienza diretta della Seconda Guerra mondiale ricorda un suono sinistro, che spesso coglieva all’improvviso, di giorno, o di notte, costringendo tutti a precipitarsi fuori dalle case. Le sirene annunciavano un imminente bombardamento. I cittadini si riversavano nei rifugi, bunker sotterranei, che di solito riuscivano a resistere alla pioggia di ordigni sganciati dagli aerei, ma il rischio di crolli e di rimanere intrappolati c’era comunque. Uno di questi ricoveri venne realizzato alle spalle del Convitto “Alfredo Cappellini” in viale Boccetta. Era stato scavato nella collina alluvionale, esempio unico nel suo genere nell’Italia meridionale, attrezzato per ospitare fino a mille sfollati. Durante l’ultimo conflitto, il 94 per cento degli edifici cittadini subì danni, poiché Messina pagò il suo ruolo strategico di porta della Sicilia. Questo luogo trasuda storia di dolori, stenti, paure, speranze di sopravvivere e di dimenticare gli orrori della guerra. Oggi, dopo i restauri, grazie a fotografie, manifesti, giornali, divise, armi, cartografia, medaglie e cimeli vari esposti, torna la memoria storica.
Caravaggio, Antonello e le altre meraviglie. Ecco il luogo dei capolavori
I fiori all’occhiello sono due preziose opere di Antonello e altre due di Caravaggio, ma anche le splendide sculture manieriste “Scilla” e “Nettuno” di Montorsoli. E c’è tanto altro da ammirare nel nuovo Museo, che ha finalmente aperto i battenti l’anno scorso dopo oltre trent’anni di cantiere a più riprese. Il MuMe accoglie i visitatori nella sua struttura espositiva all’avanguardia, circondata da un grande parco verde, dove sono dislocati frammenti architettonici pre-terremoto, rimasti per un secolo a giacere nei depositi a causa della mancanza di spazio. Il Museo offre un percorso completo, a partire dall’età greca fino ai primi anni del Novecento, secondo un criterio cronologico e con un apparato di didascalie differenziate cromaticamente. Valorizzata la collezione del Museo Civico Peloritano. Dopo il 1908 era stata salvata, ma esposta solo parzialmente nei locali di un’antica filanda, adibita a sede museale sino a qualche anno fa, il cosiddetto Museo vecchio, attiguo al nuovo.

Storia del cinema e antiche mappe nell’ex stabilimento industriale
Dopo un’operazione di riqualificazione dell’area delle raffinerie di zolfo – estratto dalle miniere dell’entroterra siciliano – in prossimità della stazione e del porto, i camini per la dispersione dei fumi provenienti dalle fabbriche sono diventati ciò che oggi è il centro fieristico polifunzionale Le Ciminiere. Questo prezioso esempio di archeologia industriale ospita anche alcune mostre permanenti, come il museo dello Sbarco in Sicilia del 1943, che racconta la storia del secondo conflitto mondiale in Sicilia attraverso fotografie d’epoca, registrazioni, riproduzioni in scala e reperti; quello del Cinema che – partendo dallo sviluppo tecnico fino all’evoluzione stilistica – racconta l’invenzione della settima arte. Affascinante anche la mostra permanente di carte geografiche antiche della Sicilia/Collezione La Gumina, con oltre 140 cartine databili dal XV al XIX secolo, portolani e atlanti tascabili.