Informazioni Utili


Indirizzo
3 Via Beati Paoli

Mandamento/Quartiere
Informazione presto disponibile

Categoria
Informazione presto disponibile

Abstract

La bottega che ogni sabato diventa sala di musica
Un sarto con la passione per il mandolino. Ogni sabato pomeriggio, da trent’anni ormai, la sua bottega da bohémienne in via Beati Paoli 3 diventa la sala prove di un gruppo di appassionati di musica popolare napoletana e siciliana. Andrea Vajuso è bravo con il mandolino e abile con ago e filo. Aveva otto anni quando ogni mattina preparava la brace per il ferro da stiro nella sartoria di Francesco Paolo Manfrè, in via Maqueda. A diciassette aveva già una bottega tutta sua. Il suo bisnonno a metà dell’Ottocento cucì la redingote a Ruggiero Settimo, ammiraglio della flotta borbonica e ministro del Regno delle due Sicilie. Ventenne, a Roma, Andrea Vajuso apprese l’arte sartoriale. Imparò a cucire a mano frack, tight e smoking per l’alta società della capitale e per attori del cinema.
Mappa

Un viaggio affascinante dentro e sotto la scena
I lavori cominciarono nel 1870, ma a cantiere aperto scoppiò un contenzioso tra costruttori ed ente appaltante. Il Comune lamentava, infatti, che il cosiddetto arco armonico fosse sordo. Fu la consulenza del grande architetto Giovambattista Basile a dirimere la controversia e a consentire l’apertura al pubblico nel 1880. Nel 1946 il teatro venne intitolato a Luigi Pirandello, fiore all’occhiello di Agrigento per il suo premio Nobel, ma successivamente, per varie vicissitudini, restò chiuso per quarant’anni fino alla storica riapertura del 1995. Dal teatro si accede all’ipogeo dell’Acqua Amara, chiamato così per l’acqua che scorreva nelle viscere della terra che evidentemente non era gradevole. Fa parte del complesso sistema di cunicoli che garantivano l’approvvigionamento idrico in città. Ancora dibattuta, tra gli studiosi, l’ipotesi di un presunto utilizzo militare.
Caravaggio, Antonello e le altre meraviglie. Ecco il luogo dei capolavori
I fiori all’occhiello sono due preziose opere di Antonello e altre due di Caravaggio, ma anche le splendide sculture manieriste “Scilla” e “Nettuno” di Montorsoli. E c’è tanto altro da ammirare nel nuovo Museo, che ha finalmente aperto i battenti l’anno scorso dopo oltre trent’anni di cantiere a più riprese. Il MuMe accoglie i visitatori nella sua struttura espositiva all’avanguardia, circondata da un grande parco verde, dove sono dislocati frammenti architettonici pre-terremoto, rimasti per un secolo a giacere nei depositi a causa della mancanza di spazio. Il Museo offre un percorso completo, a partire dall’età greca fino ai primi anni del Novecento, secondo un criterio cronologico e con un apparato di didascalie differenziate cromaticamente. Valorizzata la collezione del Museo Civico Peloritano. Dopo il 1908 era stata salvata, ma esposta solo parzialmente nei locali di un’antica filanda, adibita a sede museale sino a qualche anno fa, il cosiddetto Museo vecchio, attiguo al nuovo.

Storia del cinema e antiche mappe nell’ex stabilimento industriale
Dopo un’operazione di riqualificazione dell’area delle raffinerie di zolfo – estratto dalle miniere dell’entroterra siciliano – in prossimità della stazione e del porto, i camini per la dispersione dei fumi provenienti dalle fabbriche sono diventati ciò che oggi è il centro fieristico polifunzionale Le Ciminiere. Questo prezioso esempio di archeologia industriale ospita anche alcune mostre permanenti, come il museo dello Sbarco in Sicilia del 1943, che racconta la storia del secondo conflitto mondiale in Sicilia attraverso fotografie d’epoca, registrazioni, riproduzioni in scala e reperti; quello del Cinema che – partendo dallo sviluppo tecnico fino all’evoluzione stilistica – racconta l’invenzione della settima arte. Affascinante anche la mostra permanente di carte geografiche antiche della Sicilia/Collezione La Gumina, con oltre 140 cartine databili dal XV al XIX secolo, portolani e atlanti tascabili.
Il tempio voluto dai normanni dopo la dominazione musulmana
Edificata nel 1199, per volontà del vescovo Lorenzo, la chiesa è tra i più significativi esempi di architettura normanna a Siracusa. Testimonianza importante, nella storia della riapertura delle chiese cristiane da parte dei normanni dopo la dominazione musulmana. Navata unica, finestrelle strette e profonde che rimandano alle feritoie di castelli e fortezze medievali. L’impianto originario, scevro dalle modifiche successive, si conserva solo nella zona absidale. Salvo pure il portale della parete settentrionale. Il terremoto del 1693, anche in questa chiesa, lasciò grandi ferite. Oggi gli interni, privi delle opere d’arte trasferite altrove, sono utilizzati come oratorio della vicina parrocchia del Carmine. Da ammirare il solaio a cassettoni e gli altari. Tra le sepolture gentilizie, si trova la tomba del beato Andrea Xueres, un predicatore proveniente da Malta.
I gruppi scultorei della processione dei Misteri
Tra i tanti, c’è un luogo molto speciale nel cuore di Trapani, che dalla fine degli anni ’50 è deputato alla custodia dei venti gruppi scultorei che vengono portati in processione durante i Misteri della Settimana Santa: la Chiesa delle Anime Sante del Purgatorio. È da qui, infatti, che ha inizio la Via Crucis del Venerdì Santo, in cui viene rappresentata la passione e la morte di Cristo e che trova la propria origine in una tradizione spagnola secolare tra le più importanti e antiche d’Italia. Era la fine del ‘600 quando Pietro Castro progettò la chiesa, che venne completata nel 1712, con la facciata barocca disegnata da Giovanni Biagio Amico, architetto trapanese molto attivo nelle opere artistiche della città, sepolto nella stessa chiesa. Duramente danneggiata durante il secondo conflitto mondiale, all’interno è imperdibile la pregevole sacrestia con le incisioni in legno di noce, arricchito dalle Anime del Purgatorio.
Magiche atmosfere ottocentesche e la lapide del cagnolino
Uno splendido giardino e una dimora affascinante in stile neo-rinascimentale. È Villa Malfitano Whitaker, realizzata tra il 1885 e il 1889 dall’architetto Ignazio Greco, su commissione di Giuseppe Whitaker, imprenditore inglese stabilitosi a Palermo. I saloni sfoggiano mobili di pregio e una vasta collezione di oggetti d’arte raccolti dal proprietario, durante i suoi numerosi viaggi: quadri, coralli, avori, porcellane e arazzi fiamminghi. Da ammirare i dipinti di Lo Jacono e gli affreschi di De Maria Bergler nella “Sala d’estate”. Nel giardino, in parte all’inglese e in parte all’italiana, da oltre un secolo fioriscono rigogliose piante rare provenienti da Tunisia, Sumatra, Australia, America meridionale. Fra le curiosità da scoprire, la lapide dedicata al giardiniere e quella all’amato cane dei Whitaker, Tuffy-Too.
A spasso con gli dèi, tra le opere dei Greci in Sicilia
Non c’è da stupirsi che la Valle dei templi sia tra le mete più frequentate, raccontate e celebrate dai viaggiatori che, da sempre, approdano ad Agrigento. Tra le più importanti testimonianze della presenza dei greci in Sicilia, questa valle disseminata di opere d’arte era tra le tappe obbligate del Grand Tour. Chi avesse voluto assimilare l’arte classica, non poteva che tuffarsi in questa costellazione di bellissimi templi in stile dorico, tutti costruiti intorno al V secolo avanti Cristo. Ancora oggi, in pochi resistono al fascino di passeggiare… in mezzo agli dèi, tra il tempio di Zeus, quello dei Dioscuri, quello di Ercole. Molte di queste testimonianze sono state danneggiate dalla mano dell’uomo o dal tempo, ma l’impatto emotivo è fortissimo comunque: si ha la sensazione di vedere scorrere un tempo infinito, denso di storia. Il meglio conservato resta però il tempio della Concordia, in perfetto stile dorico, che rimanda immediatamente al Partenone di Atene. Nel VI secolo dopo Cristo venne trasformato in chiesa: e fu questo, probabilmente, a salvarlo dai saccheggi. Curiosamente, il nome che lo ha reso celebre nel mondo non ha alcuna relazione con il tempio: a chiamarlo “della concordia” fu infatti lo storico del Quattrocento Fazello che, semplicemente, ritrovò nelle vicinanze un’iscrizione latina con questa parola.
Lo scrigno degli undici fercoli in processione il Venerdì Santo
Questo edificio religioso custodisce gli undici gruppi statuari che rappresentano le “stazioni” della Passione di Cristo, portati in processione il Venerdì Santo. Si tratta di una tradizione molto cara ai messinesi, le cui origini risalgono al XVI secolo. I simulacri, fino al terremoto del 1783, erano conservati in una cappella annessa al palazzo cinquecentesco appartenuto ai principi Balsamo e poi alla famiglia Grano, sede delle Arciconfraternite del Rosario dei Santi Apostoli Simone e Guida e del Rosario della Pace e dei Bianchi. Crollati palazzo e cappella, nel 1932 venne costruito un nuovo Oratorio della Pace, che ha come portale d’ingresso un finestrone del 1609, proveniente dal monastero di San Placido Calonerò. Oggi l’Oratorio è di proprietà dell’Arciconfraternita degli Azzurri e della Pace dei Bianchi, mentre le undici “Varette” sono sotto la custodia della Confraternita del Santissimo Crocifisso.

Storia del cinema e antiche mappe nell’ex stabilimento industriale
Dopo un’operazione di riqualificazione dell’area delle raffinerie di zolfo – estratto dalle miniere dell’entroterra siciliano – in prossimità della stazione e del porto, i camini per la dispersione dei fumi provenienti dalle fabbriche sono diventati ciò che oggi è il centro fieristico polifunzionale Le Ciminiere. Questo prezioso esempio di archeologia industriale ospita anche alcune mostre permanenti, come il museo dello Sbarco in Sicilia del 1943, che racconta la storia del secondo conflitto mondiale in Sicilia attraverso fotografie d’epoca, registrazioni, riproduzioni in scala e reperti; quello del Cinema che – partendo dallo sviluppo tecnico fino all’evoluzione stilistica – racconta l’invenzione della settima arte. Affascinante anche la mostra permanente di carte geografiche antiche della Sicilia/Collezione La Gumina, con oltre 140 cartine databili dal XV al XIX secolo, portolani e atlanti tascabili.
Quando Caravaggio arrivò a Siracusa
Non è certo un mistero il legame che unisce santa Lucia alla sua città. La martire era però già commemorato alla fine del IV secolo. Lo dimostra questa iscrizione, scoperta dall’archeologo Paolo Orsi nella catacomba cittadina di San Giovanni: “Euschia, irreprensibile, vissuta buona e pura per circa 25 anni, morì nella festa della mia santa Lucia, per la quale non vi è elogio come conviene. Cristiana, fedele, perfetta, riconoscente a suo marito di una viva gratitudine”. È la dedica, straziante e dolcissima, di un marito alla sua giovane moglie. Fino al secolo XV, Santa Lucia alla Badia era un monastero, raso al suolo dal terremoto del 1693 e ricostruito per volere delle suore cistercensi. Il martirio di questa giovane e risoluta donna non lasciò indifferente neanche Caravaggio, che nel 1608, durante la sua permanenza in città, dipinse “Il seppellimento di Santa Lucia”, che si trova proprio in questa chiesa. Un capolavoro, si dice, realizzato in poco più di un mese.
Il Crocifisso dei prodigi dove riposano sovrani e cavalieri
Si trova nella parte più alta del centro storico e fu edificata dai domenicani, sui resti della chiesa di Santa Maria, durante il regno di Giacomo D’Aragona che, nel 1289, concesse il sito. Nonostante le trasformazioni e le modifiche subite nel corso dei secoli, la facciata conserva ancora un bel rosone trecentesco. All’interno, da ammirare l’affresco bizantineggiante della Madonna del Latte e la settecentesca cappella del Crocifisso, progettata da Giovanni Biagio Amico, che custodisce sull’altare un raro esempio di Crocifisso doloroso gotico. A questo Crocifisso si attribuiscono diversi miracoli: il primo durante un’epidemia di peste, quando iniziò a sanguinare il costato; il secondo, in un periodo di carestia, quando un bambino si inginocchiò chiedendo del pane e il simulacro, schiodato un braccio dalla croce, glielo porse. Dall’abside, dov’è sepolto Manfredi d’Aragona, si accede alla Cappella dei Crociati con affreschi dei secoli XIV e XV.
Nella cornice neoclassica una collezione d’arte dal Seicento a oggi
Prende il nome da uno degli ultimi proprietari della dimora, il commerciante di agrumi Francesco Zito Scalici, che acquistò l’edificio nel 1909, ma le sue origini sono settecentesche. Nelle eleganti sale in stile neoclassico, distribuite su tre piani, si dipana un articolato percorso museografico. Vi si possono ammirare le collezioni pittoriche e grafiche della Fondazione Sicilia, frutto, maturato nel tempo, del recupero dei beni artistici appartenenti all’ex Banco di Sicilia, del patrimonio dell’ex Cassa di Risparmio “Vittorio Emanuele” e di successive donazioni private. Visitare la mostra permanente è come viaggiare attraverso i secoli e passare in rassegna tanti stili artistici, dal Seicento ai giorni nostri con nomi che parlano da soli: Preti, Lojacono, Leto, Catti, De Maria Bergler, Sironi, De Pisis. Oltre alla pinacoteca, la Villa ospita spesso vari eventi culturali.
Nel cuore del Palazzo comunale due luoghi della memoria
Palazzo Zanca, sede del Comune, custodisce due raccolte museali molto interessanti sull’antica Zancle e sulle tradizioni popolari locali. L’Antiquarium espone preziosi reperti archeologici, che ricostruiscono la storia della città dal periodo greco a quello medievale, rinvenuti, negli ultimi decenni, nell’area del cortile interno dello stesso Palazzo o in altri siti vicini. La mostra permanente sulla “Vara” di Ferragosto e sui Giganti Mata e Grifone, ritenuti i progenitori dei messinesi, raccoglie, invece, materiale iconografico relativo alla celebre festa dello Stretto, che ha come protagonista, dal 1535, la machina piramidale dell’Assunta. La processione, con migliaia di fedeli, incantò anche famosi scrittori e viaggiatori del Grand tour. La rassegna espositiva è stata allestita grazie a una sinergia tra Comune, Comitato Vara e Associazione Amici del Museo. Rappresenta il primo nucleo di un costituendo Museo della Vara e dei Giganti.
Medioevo e Grande Guerra, dove le epoche si intrecciano
Qui convivono il passato remoto e quello prossimo: la torre merlata medievale e il Sacrario. La prima è quella appartenente all’antica fortezza di Rocca Guelfonia, dove nel 1284 venne rinchiuso Carlo II d’Angiò “lo storpio”, sconfitto in una battaglia navale dalla flotta siciliana-aragonese. Sulla torre, c’è la terza campana più grande d’Italia, con il bronzo fuso dei cannoni del primo conflitto mondiale. Accanto, l’imponente Sacrario inaugurato nel 1937, ispirato alla basilica di Superga, con una cupola in stile barocco. Edificio-simbolo di memoria storica, per rendere omaggio ai soldati morti nelle due guerre. In una nicchia della scalinata esterna c’è una scultura marmorea di Cristo Re realizzata da Tore Calabrò. Dentro, riposano le salme dei caduti e su di loro veglia il monumento al Milite ignoto di un altro artista messinese, Antonio Bonfiglio. Le due grandi tele sono di Salvatore e Guido Gregorietti. Circondano la scupola le otto statue in bronzo di Teofilo Raggio, in stile razionalista, raffiguranti le Virtù teologali e cardinali.

L’arte del presente nello scrigno del Settecento
Se l’idea è quella di creare un fil rouge tra l’arte del passato e del presente con una proiezione verso quella del futuro, fa capolino il MACS. La Badia Piccola del Monastero di San Benedetto – sede del museo e sito Unesco – rappresenta, infatti, un recipiente architettonico di grande valore artistico che – unendo in modo magistrale l’arte del nostro tempo e la bellezza architettonica settecentesca – diventa appendice dei contenuti estetici di oggi, esprimendosi tramite la fusione di tutti i linguaggi dell’arte visiva e il contesto barocco. Il museo arte contemporanea Sicilia vuole valorizzare i beni culturali del patrimonio siciliano, promuovendo la conoscenza dell’arte contemporanea italiana e internazionale con i suoi artisti già noti e i talenti emergenti.
L’antico luogo di preghiera delle monache di clausura
Dopo un periodo di accurati lavori, questa chiesa è tornata a essere fruibile con tutta la sua storia legata soprattutto al monastero annesso, un tempo tra i più grandi e ricchi della città. Fu edificata nel XVII secolo, su progetto di Michelangelo Bonamici. Il terremoto del 1693 danneggiò l’intero complesso religioso, causando ingenti crolli del campanile e della sacrestia. Le monache di clausura furono costrette ad andar via in tutta fretta e a trasferirsi nel Palazzo arcivescovile. Nel 1703 iniziò l’opera di ricostruzione, sotto la direzione di Pompeo Picherali che cercò di attenersi all’originario disegno di Michelangelo Bonamici. Nella seconda metà dell’Ottocento, il monastero cambiò destinazione d’uso e venne adibito a sede della Prefettura. Oggi, dopo i recenti restauri, ammiriamo la bella chiesa con il portale originario quattrocentesco. All’interno, tre tele di pregio, opera di Onofrio Gabrielli: “La Madonna della Lettera”, “Il martirio di santa Lucia”, “La strage degli Innocenti”.
Cinque navate e l’organo dei record
La tradizione racconta che sia stata la prima chiesa cristiana edificata a Trapani, su un tempio pagano. Più volte ricostruita nell’arco dei secoli, San Pietro nella seconda metà del 1700 fu ampliata e restaurata con la partecipazione dell’architetto Giovanni Biagio Amico, ma subito dopo rimaneggiata dal suo allievo Lugiano Gambina. Nel 1968, a causa del terremoto nella valle del Belice, rimase danneggiata. In seguito, è stata consolidata e ristrutturata. Unica chiesa trapanese con cinque navate, conserva al suo interno opere di artisti locali del XVII secolo, quali i dipinti di Andrea Carreca, un Crocifisso di Giuseppe Milanti e il “San Pietro in cattedra” di Mario Ciotta. Custodisce anche l’organo più complesso d’Europa, realizzato tra il 1836 e il 1847 da Francesco La Grassa, in grado di riprodurre, grazie a un ingegnoso meccanismo, i più poliedrici effetti sonori.
Il tesoro settecentesco donato dal vescovo
Il vescovo Andrea Lucchesi Palli, di nobile famiglia e di grande cultura, il 16 ottobre 1765 fondò la Biblioteca Lucchesiana “senza risparmio di fatiche né di spese”, per contribuire alla formazione di “maturi cristiani e responsabili cittadini”. Donò alla comunità cristiana un edificio di sua proprietà, adiacente al Palazzo vescovile, e tutto il suo patrimonio librario, poi ulteriormente arricchito nel corso dei secoli. Oggi la Biblioteca custodisce sessantamila volumi preziosi: manoscritti, incunaboli, testi arabi e codici miniati. Si ispira, nell’impianto progettuale, a quella di San Martino delle Scale realizzata dall’architetto palermitano Giuseppe Venanzio Marvuglia: pianta rettangolare, scaffalature in due ordini sovrapposti e ballatoio per la fruizione dei livelli superiori, protetti da ringhiera in ferro battuto. Un luogo di sapere e di intime meditazioni.
Tra storie della città e un leone ruggente, il più grande marchingegno del mondo
Non si può pensare a Messina senza che la mente vada a uno dei suoi simboli più significativi : l’orologio astronomico.
Incastonato nel campanile del Duomo, faticosamente rimesso in piedi dopo il terremoto del 1908, ha visto la luce grazie agli operai-artisti della prestigiosa ditta Ungerer, di Strasburgo. I meccanismi, infatti, riprendono un po’ quelli dell’orologio astronomico della città nordeuropea; ma uno “zampino” lo mise anche Papa Pio XI, che regalò all’allora arcivescovo della città, Angelo Paino, un modellino funzionante del famoso orologio. E questi ne fu così entusiasta che ne commissionò uno simile, dando vita così al più grande e più complesso orologio astronomico del mondo.
Qui, il tempo è scandito attraverso un vero e proprio racconto con personaggi semoventi: al primo piano è raffigurata l’esperienza terrena con statue simbolo delle fasi della vita – infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia – tra cui, beffarda, si cela la morte.
Più sotto, invece, ecco i giorni della settimana, impersonati da altrettante divinità greche alla guida di un carro trainato da differenti animali.
Il secondo piano è dedicato alla vita di Cristo (nascita, Pasqua e Pentecoste) mentre il terzo, dominato da un poderoso gallo, racconta la rinascita di Messina con le statue di Dina e Clarenza, valorose cittadine dei Vespri siciliani, simbolo della lotta contro gli Angioini. Infine, il leone: stringe la bandiera di Messina e la fa sventolare tre volte al giorno. E a mezzogiorno, puntuale, ruggisce, per ricordare a tutti la forza d’animo della sua gente.

Quando la Madonna, in soccorso di Messina, deviò con le mani le frecce dei francesi
Era il 1282 e i messinesi erano insorti contro lo strapotere e l’insolenza dei francesi. Erano i Vespri siciliani, insomma.
E la Madonna delle vittorie apparve nel luogo in cui infuriava la lotta e in cui oggi sorge il Santuario di Montalto: una dama bianca, che con le mani deviava le frecce nemiche e con le vesti copriva le mura di Messina, rendendole invisibili ai soldati francesi. La leggenda racconta ancora che, poco dopo il prodigioso evento, Maria apparve in sogno a un frate, Nicola, chiedendogli di fare sorgere proprio lì un luogo di culto a lei consacrato. Il giorno seguente, a mezzogiorno, il fraticello convocò le più alte cariche cittadine, e una colomba, con il suo volo, delimitò il terreno, che venne poi acquistato dal Senato messinese. Una leggenda così impressa nella memoria collettiva da essere ricordato nel campanile del Duomo con un quadro semovente.
Nel 1295 la chiesa fu aperta ai fedeli e si diffuse il culto della Madonna di Montalto, ma nel 1908 il terremoto distrusse l’intero complesso, poi completamente ricostruito.
Dal santuario, visibile da ogni parte della città, si gode di una vista mozzafiato, ma da ammirare è anche lo splendido crocifisso cinquecentesco miracolosamente (è il caso di scriverlo) rinvenuto dopo i crolli del terremoto.