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Abstract

L’architetto-designer con la passione dell’oreficeria
Vitalba Canino è architetto e designer di gioielli. Progetta e realizza oggetti unici e lontani dai cliché della gioielleria tradizionale. Una passione esplosa subito dopo la laurea in Architettura e dopo numerose esperienze oltre lo Stretto. Nel 2007 ha cominciato a dedicarsi all’assemblaggio di pietre dure e catene e ha seguito corsi di “smalti a fuoco” alla Scuola orafa ambrosiana di Milano. Lavora principalmente l’argento, ma anche l’ottone bagno oro e talvolta l’oro, realizzando gioielli spesso geometrici e non convenzionali, le cui fonti d’ispirazione sono svariate, principalmente tratte dalla natura ma anche dallo studio di gioielli prodotti da antiche civiltà a partire da quelli etruschi. Da qualche tempo si è inoltre dedicata anche alla produzione di borse, stole, cappelli e accessori, che disegna personalmente e fa realizzare da artigiani locali.
Mappa

Cuoio e acquarelli per adulti sognatori
Grembiule da lavoro e ditali in cuoio compongono la divisa di Alessio Colli, statistico con la passione per l’artigianato che divide con gli acquerelli di Rosa Lombardo quest’oasi di luce in centro storico. “Di matematica e geometrie ce ne sono parecchie anche nel cuoio”, dice. Cilindri, custodie per strumenti musicali, scatole, cartelle, mensole, porta pc, astucci, porta tabacco e cinture sono gli oggetti realizzati e tra i più richiesti. Accanto, gli acquarelli di Rosa campeggiano su carta e tessuti con il marchio “Larotellina”. Architetto con la passione per la pittura, Rosa Lombardo alle spalle ha un’esperienza da grafico pubblicitario e una collaborazione con una grande azienda di ricami. I colori del Mediterraneo sono la sua fonte di ispirazione, ma la sua musa è una Palermo che sembra raccontata da Gianni Rodari: barche in cielo, pesci volanti, grandi balene. Per adulti sognatori.
Le antiche cave dei supplizi diventate giardino paradisiaco
Un luogo che trasuda storia e storie di patimenti. La Latomia dei Cappuccini, una delle più grandi del territorio di Siracusa, nel VI secolo avanti Cristo era una cava dalla quale si estraevano materiali per l’edilizia. Ma nel 413 divenne luogo di orribili supplizi. In occasione della spedizione ateniese contro Siracusa, infatti, i nemici greci fecero una terribile fine: imprigionati nelle viscere della terra, in gran parte morirono. Successivamente, la latomia fu destinata a necropoli. Alla fine del 1500, i frati di un convento vicino fecero crescere rigogliosi orti e giardini. E fu la catarsi. Questo luogo diventò un posto dolce e ameno, meta nei secoli successivi di tappe di importanti viaggiatori, nell’ambito del Grand tour. Ecco, per esempio, come Patrick Brydone descriveva le antiche latomie: “Sono senza dubbio uno dei luoghi più belli e romantici che io abbia mai veduto. Il giardino è tutto tagliato in una roccia dura come il marmo, composta di un conglomerato di conchiglie, ghiaia e altro materiale marino”.
I gruppi scultorei della processione dei Misteri
Tra i tanti, c’è un luogo molto speciale nel cuore di Trapani, che dalla fine degli anni ’50 è deputato alla custodia dei venti gruppi scultorei che vengono portati in processione durante i Misteri della Settimana Santa: la Chiesa delle Anime Sante del Purgatorio. È da qui, infatti, che ha inizio la Via Crucis del Venerdì Santo, in cui viene rappresentata la passione e la morte di Cristo e che trova la propria origine in una tradizione spagnola secolare tra le più importanti e antiche d’Italia. Era la fine del ‘600 quando Pietro Castro progettò la chiesa, che venne completata nel 1712, con la facciata barocca disegnata da Giovanni Biagio Amico, architetto trapanese molto attivo nelle opere artistiche della città, sepolto nella stessa chiesa. Duramente danneggiata durante il secondo conflitto mondiale, all’interno è imperdibile la pregevole sacrestia con le incisioni in legno di noce, arricchito dalle Anime del Purgatorio.

Da Paolo Orsi a Guido Libertini, due custodi della bellezza
Una collezione unica nel suo genere, che racchiude preziosi reperti dal periodo protostorico e preistorico fino all’età tardo antica e medioevale. Ma soprattutto l’opera di due studiosi legati da una caratteristica comune: l’amore per l’arte e per la condivisione e diffusione delle opere.
L’origine della collezione partono infatti proprio da Paolo Orsi, infaticabile intellettuale e direttoredel museo archeologico di Siracusa, che donò dieci reperti provenienti dagli scavi di Megara Iblea al gabinetto di archeologia dell’Università di Catania. La collezione fu implementata dall’accademico e archeologo Guido Libertini che, a partire dagli anni Venti, arricchì la collezione, attraverso donazioni, con calchi in gesso di statuaria antica e recuperando una collezione numismatica donata nel 1783 da monsignor Salvatore Ventimiglia all’ateneo catanese.
Quello di Libertini fu un lavoro infaticabile, che lo portò ad acquisire tutti quei reperti che avrebbero formato l’attuale collezione del museo. Un’istituzione quindi in continua evoluzione e tutt’altro che statica, visto che l’archeologo concepì l’idea di un museo universitario dedicato alla ricerca ma soprattutto alla didattica.
Una chicca su tutte, dovuta all’interesse di Libertini per gli antichi manufatti di Centuripe: si tratta di 78 falsi, prodotti dai falsari di Centuripe con tale maestria da ingannare anche gli esperti.
Nella cornice neoclassica una collezione d’arte dal Seicento a oggi
Prende il nome da uno degli ultimi proprietari della dimora, il commerciante di agrumi Francesco Zito Scalici, che acquistò l’edificio nel 1909, ma le sue origini sono settecentesche. Nelle eleganti sale in stile neoclassico, distribuite su tre piani, si dipana un articolato percorso museografico. Vi si possono ammirare le collezioni pittoriche e grafiche della Fondazione Sicilia, frutto, maturato nel tempo, del recupero dei beni artistici appartenenti all’ex Banco di Sicilia, del patrimonio dell’ex Cassa di Risparmio “Vittorio Emanuele” e di successive donazioni private. Visitare la mostra permanente è come viaggiare attraverso i secoli e passare in rassegna tanti stili artistici, dal Seicento ai giorni nostri con nomi che parlano da soli: Preti, Lojacono, Leto, Catti, De Maria Bergler, Sironi, De Pisis. Oltre alla pinacoteca, la Villa ospita spesso vari eventi culturali.

Storia del cinema e antiche mappe nell’ex stabilimento industriale
Dopo un’operazione di riqualificazione dell’area delle raffinerie di zolfo – estratto dalle miniere dell’entroterra siciliano – in prossimità della stazione e del porto, i camini per la dispersione dei fumi provenienti dalle fabbriche sono diventati ciò che oggi è il centro fieristico polifunzionale Le Ciminiere. Questo prezioso esempio di archeologia industriale ospita anche alcune mostre permanenti, come il museo dello Sbarco in Sicilia del 1943, che racconta la storia del secondo conflitto mondiale in Sicilia attraverso fotografie d’epoca, registrazioni, riproduzioni in scala e reperti; quello del Cinema che – partendo dallo sviluppo tecnico fino all’evoluzione stilistica – racconta l’invenzione della settima arte. Affascinante anche la mostra permanente di carte geografiche antiche della Sicilia/Collezione La Gumina, con oltre 140 cartine databili dal XV al XIX secolo, portolani e atlanti tascabili.
Tra storie della città e un leone ruggente, il più grande marchingegno del mondo
Non si può pensare a Messina senza che la mente vada a uno dei suoi simboli più significativi : l’orologio astronomico.
Incastonato nel campanile del Duomo, faticosamente rimesso in piedi dopo il terremoto del 1908, ha visto la luce grazie agli operai-artisti della prestigiosa ditta Ungerer, di Strasburgo. I meccanismi, infatti, riprendono un po’ quelli dell’orologio astronomico della città nordeuropea; ma uno “zampino” lo mise anche Papa Pio XI, che regalò all’allora arcivescovo della città, Angelo Paino, un modellino funzionante del famoso orologio. E questi ne fu così entusiasta che ne commissionò uno simile, dando vita così al più grande e più complesso orologio astronomico del mondo.
Qui, il tempo è scandito attraverso un vero e proprio racconto con personaggi semoventi: al primo piano è raffigurata l’esperienza terrena con statue simbolo delle fasi della vita – infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia – tra cui, beffarda, si cela la morte.
Più sotto, invece, ecco i giorni della settimana, impersonati da altrettante divinità greche alla guida di un carro trainato da differenti animali.
Il secondo piano è dedicato alla vita di Cristo (nascita, Pasqua e Pentecoste) mentre il terzo, dominato da un poderoso gallo, racconta la rinascita di Messina con le statue di Dina e Clarenza, valorose cittadine dei Vespri siciliani, simbolo della lotta contro gli Angioini. Infine, il leone: stringe la bandiera di Messina e la fa sventolare tre volte al giorno. E a mezzogiorno, puntuale, ruggisce, per ricordare a tutti la forza d’animo della sua gente.
Nella casa dei prodigi e delle illusioni ottiche
La stanza di Ames, la stanza delle anomalie di gravità, la sedia di Beuchet. Non sono titoli di favole, anche se in un certo senso ci hanno a che fare: sono le illusioni ospitate dal Moi (Museum of illusions). Una realtà giovanissima – il museo è nato a Trapani nel 2017 – frutto dell’attenta ricerca sui limiti della percezione umana e su tutti quei “trucchi” che, ci piaccia o no, riescono ancora ingannare la mente, ad affascinarla.
Andando a spasso per il Moi, quindi, vi imbatterete in moltissime illusioni geometriche, prospettiche, di movimento, immagini ambigue ed illusioni di colore.
Ogni “illusione” è ovviamente spiegata e risolta con l’aiuto della scienza, ma anche, per i più piccoli, attraverso laboratori didattici in cui i partecipanti scopriranno come riconoscere le illusioni ottiche e quali sono gli elementi che regolano la percezione visiva. Con l’occasione di creare con le proprie mani un’illusione ottica, e magari di portarsi pure a casa il proprio piccolo prodigio.

L’opera dei gesuiti raccontata in una chiesa
Uno spettacolo prima ancora di entrare, visto che si trova in via dei Crociferi, la strada più scenografica del barocco catanese. Edificato nel Settecento, questo edificio racconta una lunga storia che intreccia la permanenza dei gesuiti in città a una nobile famiglia, i Borgia, da sempre legata a doppio filo al mondo della chiesa e della cristianità. È intitolata infatti a Francesco Borgia, nato nella cristianissima Spagna nel 1510, che consacrò tutta la vita a riabilitare il discusso nome del proprio casato attraverso una vita austera e morigerata. Alla morte della moglie, Eleonora, si unì alla compagnia di Gesù e da lì iniziò, instancabile, la sua opera di evangelizzazione in giro per il mondo, autorevole consigliere di imperatori, re e principi, per tornare finalmente a morire nella sua cella romana, nel 1572. E temi legati ai gesuiti sono disseminati per tutta la chiesa, a cominciare dalla cupola, affrescata da due mostri sacri del tempo: Olivio Sozzi e Vito D’Anna. Nella decorazione domina la figura di Cristo, mentre nei pennacchi della cupola, le quattro figure rappresentano i continenti evangelizzati dalla Compagnia di Gesù: Europa, Asia, Africa e America.
Il tesoro settecentesco donato dal vescovo
Il vescovo Andrea Lucchesi Palli, di nobile famiglia e di grande cultura, il 16 ottobre 1765 fondò la Biblioteca Lucchesiana “senza risparmio di fatiche né di spese”, per contribuire alla formazione di “maturi cristiani e responsabili cittadini”. Donò alla comunità cristiana un edificio di sua proprietà, adiacente al Palazzo vescovile, e tutto il suo patrimonio librario, poi ulteriormente arricchito nel corso dei secoli. Oggi la Biblioteca custodisce sessantamila volumi preziosi: manoscritti, incunaboli, testi arabi e codici miniati. Si ispira, nell’impianto progettuale, a quella di San Martino delle Scale realizzata dall’architetto palermitano Giuseppe Venanzio Marvuglia: pianta rettangolare, scaffalature in due ordini sovrapposti e ballatoio per la fruizione dei livelli superiori, protetti da ringhiera in ferro battuto. Un luogo di sapere e di intime meditazioni.
Il luogo dove i francescani curavano gli appestati
Nel 1574, a Martogna, sulle falde di Monte Erice, a prodigarsi per i poveri appestati erano i francescani terziari. In quell’anno, la famiglia del nobile Berardo Di Ferro donò loro la propria chiesa di famiglia intitolata a san Rocco, a condizione di non cambiarne il nome. Il santo, guarito dalla peste, era stato taumaturgo e appartenente all’ordine francescano. Il priore Michele Burgio curò l’ampliamento della chiesa e il completamento. Nel 1878 l’edificio barocco venne trasformato in ufficio postale, tanto che ancor oggi qualcuno chiama il San Rocco la Posta Vecchia. Poi chiuso fino al 2012, infine destinato a oratorio, polo culturale e museale, dove sono esposte opere di artisti noti, come Carla Accardi, e di altri emergenti. Oggi si presenta come un laboratorio di confronto culturale della Chiesa con il mondo dell’arte.
Il “salotto” di designer e artisti nell’atrio della dimora storica
“Un luogo per curiosi”: così definiscono il loro studio con spazio espositivo Federica Tutino e Bruna Cattano, architette di formazione e artigiane per passione. L’hanno aperto nel 2016 e subito è diventato un punto di incontro per designer e artisti che nello spazio, oltre l’atrio di palazzo Campofiorito, espongono i loro prodotti e tengono workshop. In esposizione anche i lavori di entrambe, architetti e designer. Tutino, con il brand Tuti, realizza elementi di arredo e design ispirandosi alla natura. Cattano, con Rizma, lavora su tessuti e carte utilizzando diversi metodi di stampa, dal block printing tramite matrici intagliate, alla serigrafia. All’interno ci si muove come in un giardino sospeso nel tempo, tra borse riciclate, stampe, tessili e tavolini in legno e ferro. “La natura è una forma d’arte superiore”, dice Federica, che realizza anche oggetti in resina su misura.

Quel magico spicchio di cielo al centro della Kalsa
Il fascino della chiesa a cielo aperto cattura chiunque. Lo Spasimo è il simbolo del centro storico ritrovato. I lavori di costruzione iniziarono nel 1509 a opera dei monaci olivetani: il complesso però non venne mai completato in quanto, nel 1536, l’aggravata minaccia dell’armata turca indusse il vicerè di Sicilia don Ferrante Gonzaga a costruire un baluardo a ridosso della chiesa e del convento. Nel 1520 si arricchì di un capolavoro: lo “Spasimo di Sicilia” di Raffaello, ora esposto al Prado di Madrid, protagonista di un celebre giallo storico. Nel 1582 la chiesa venne adibita a spettacoli, ma nel secolo successivo divenne lazzeretto durante l’epidemia di peste. A metà del Settecento crollò la volta della navata centrale, che non verrà mai più ricostruita.
Il tempio voluto dai normanni dopo la dominazione musulmana
Edificata nel 1199, per volontà del vescovo Lorenzo, la chiesa è tra i più significativi esempi di architettura normanna a Siracusa. Testimonianza importante, nella storia della riapertura delle chiese cristiane da parte dei normanni dopo la dominazione musulmana. Navata unica, finestrelle strette e profonde che rimandano alle feritoie di castelli e fortezze medievali. L’impianto originario, scevro dalle modifiche successive, si conserva solo nella zona absidale. Salvo pure il portale della parete settentrionale. Il terremoto del 1693, anche in questa chiesa, lasciò grandi ferite. Oggi gli interni, privi delle opere d’arte trasferite altrove, sono utilizzati come oratorio della vicina parrocchia del Carmine. Da ammirare il solaio a cassettoni e gli altari. Tra le sepolture gentilizie, si trova la tomba del beato Andrea Xueres, un predicatore proveniente da Malta.
Quando l’innovazione dava lavoro a un’intera isola
Le cronache raccontano che, per riprendersi dal lutto in seguito alla morte dei due figli piccoli, donna Franca Florio soggiornò a lungo a Favignana. Un’isola che doveva apparire rude e selvaggia, ai tempi, ma con cui i Florio avevano un legame solido e leale. Una storia che nasce nel 1841, quando la famiglia, intravedendo i grossi guadagni della pesca del tonno, prende in affitto la tonnara dai Pallavicini di Genova. Da qui all’acquisto da parte di Ignazio Florio delle intere isole di Favignana e Formica e dei diritti di pesca il passo è piuttosto breve. Ignazio non perde tempo: chiama un architetto del calibro di Giuseppe Damiani Almeyda, amplia e ristruttura la tonnara. Va oltre, anzi, costruendo lo stabilimento per la conservazione del tonno, introducendo il metodo della conservazione del pesce sottolio dopo la bollitura e inscatolamento. Una rivoluzione che farà il giro del mondo (all’Esposizione universale del 1891-92 l’intraprendente famiglia porterà la novità assoluta delle scatolette di latta con apertura a chiave), che richiederà manodopera e impiegherà per lungo tempo buona parte di favignanesi.
Oggi, questa straordinaria testimonianza di archeologia industriale – 32 mila metri quadri, una delle più grandi tonnare del Mediterraneo – rivive in un suggestivo spazio destinato a museo, con sale multimediali e l’organizzazione di eventi culturali. Ma, ancora, ostinatamente, riecheggia il nome dei Florio e di tutti i lavoratori che hanno fatto del tonno e della sua lavorazione un’eccellenza per moltissimi decenni.
I mobili in miniatura fatti con i legni antichi
Da piccoli si comincia così, un po’ per gioco e un po’per emulazione. Si osservano i gesti dei grandi e poi si cerca di imitarli. È stato così per Rosario Lannino. Tra l’odore del legno vecchio e la colla a caldo, ci passava le giornate da bambino nella bottega del padre Domenico, ebanista come il nonno Matteo e gli zii Giovanni e Salvatore. Nel laboratorio di famiglia, all’epoca in corso Alberto Amedeo, osservava suo padre restaurare mobili antichi o riprodurne di nuovi a regola d’arte. Da lui ha imparato a riconoscere le diverse essenze del legno e a distinguere gli stili delle diverse epoche. Le stesse tecniche utilizzate dal padre, Rosario le applica su mobili di dimensioni fino a tre, quattro volte più piccoli riutilizzando il legno vecchio. Dice di averne riprodotti almeno un centinaio. Comò, scrittoi e secrétaire in stile francese dalla metà del Seicento alla fine del Settecento.
Abiti talari, offertori, rosari Da un secolo tutto per il clero
La ditta Pantaleone nasce nel 1905, anno in cui Giuseppe, il suo fondatore, sarto ecclesiastico itinerante, originario di Villalba, decide di smettere di attraversare la Sicilia per soddisfare le esigenze del clero e di aprire il primo punto vendita. È solo nel 1919 che il sarto nisseno si trasferisce a Palermo con la famiglia, e, proprio nel palazzo nobiliare in cui va a vivere – racconta il nipote Domenico, oggi gestore dell’azienda – crea la propria bottega. Il 1938 è un anno di svolta perché Giuseppe lascia l’attività di sarto per dedicarsi alla vendita, aprendo la nuova sede in corso Vittorio Emanuele, ampliando la gamma di articoli in vendita, da quel momento inclusiva di oggetti di arredamento sacro, quali statue, brocche, rosari e piatti offertoriali. Nel corso degli ultimi venti anni l’impresa è diventata un riferimento per il clero, con commesse in tutta Europa, a Sidney, a New York.
Divise, mostrine, cappelli dal 1930 a oggi
Luigi Romano, cavaliere dell’ordine di Malta, è titolare di una sartoria civile, militare e per donna, ubicata ai numeri civici 435 e 455 di corso Vittorio Emanuele. I due negozi, che comunicano internamente, hanno nascite diverse. L’attività iniziale di sartoria partì, infatti, dal civico 453 intorno al 1930: fondatore fu un sarto militare, tale Giovanni Lo Cascio, che – ritiratosi dal lavoro dopo lunghissima attività – vendette tutto al cavaliere Romano. Per quanto concerne la sartoria al civico 455, sin dagli anni Trenta era appartenuta al sarto civile e militare Serio, che vi aveva svolto a lungo l’attività di sarto militare. Morto Serio, la vedova Serio, nel 1953, ha concesso in affitto, alla moglie di Luigi Romano, il negozio, con tutta la sua dotazione di antiche vetrine. Così le due attività sono state unificate.
Lo scrigno degli undici fercoli in processione il Venerdì Santo
Questo edificio religioso custodisce gli undici gruppi statuari che rappresentano le “stazioni” della Passione di Cristo, portati in processione il Venerdì Santo. Si tratta di una tradizione molto cara ai messinesi, le cui origini risalgono al XVI secolo. I simulacri, fino al terremoto del 1783, erano conservati in una cappella annessa al palazzo cinquecentesco appartenuto ai principi Balsamo e poi alla famiglia Grano, sede delle Arciconfraternite del Rosario dei Santi Apostoli Simone e Guida e del Rosario della Pace e dei Bianchi. Crollati palazzo e cappella, nel 1932 venne costruito un nuovo Oratorio della Pace, che ha come portale d’ingresso un finestrone del 1609, proveniente dal monastero di San Placido Calonerò. Oggi l’Oratorio è di proprietà dell’Arciconfraternita degli Azzurri e della Pace dei Bianchi, mentre le undici “Varette” sono sotto la custodia della Confraternita del Santissimo Crocifisso.
Cinque secoli di storia del modo di fare la guerra
Com’è cambiato il modo di difendersi e di attaccare? Quali differenze tra l’arte della guerra in Europa e quella americana o islamica? E come si andava a caccia un tempo? Le risposte si trovano in questa interessante esposizione con centinaia di armi che fanno parte di una collezione privata, considerata una delle più ricche al mondo. Un viaggio attraverso cinque secoli di storia documentata. La rassegna è allestita nell’ambito del Museo delle armi antiche, in alcuni locali della sede della Città metropolitana, ex Provincia. A raccogliere questi cimeli, da circa cinquant’anni, è un docente animato da grande passione, Gaetano Ori Saitta.
Vedremo armi da fuoco pesanti e leggere, “bianche” da getto, da asta, a lama lunga e corta, ma anche capi d’abbigliamento militari e oggetti utili alla difesa passiva. Cannoni, fucili, pistole, archibugi, pugnali, spade, alabarde, usati come strumenti bellici o per parate militari. Antica tecnologia, ma pure, in alcuni casi, bei pezzi di accurato artigianato artistico da ammirare.